|
English version
|
|

Premio
«Nuovo Caffè
Letterario 2001»
|
@lfa *
Corrisponde alle iniziali dell’autore,
ma non è uno pseudonimo.
È piuttosto simbolo e metafora
di un nuovo cominciamento.
▼
|
|

Homepage
|
§ I.
Prologo
È
tempo d’inventare nuovi sistemi di vita che non siano vuote
elucubrazioni sui futuribili, bensì ipotesi politiche capaci di
promuovere un sistema sociale che renda affascinante e godibile
l’esistenza delle donne e degli uomini sulla terra.
Chi crede impossibile questa progettualità ha già sprecato la
propria vita e quella delle future generazioni, giacché la rinuncia
alla rivoluzione è già la rinuncia alla domanda di felicità.
Tuttavia un’impresa così ardua è possibile solo a patto di
trasformare radicalmente le attuali modalità del pensiero. E quindi
di liberarsi dal dogma del mercato, imparando a coniugare
l’utilità con l’amore. Per nuotare dentro questa inesplorata
dimensione, occorrerà perciò definire una nuova logica, intesa come relatività
del positivo. In tal modo il muscolo del pensiero potrà muovere
persone e cose con un riflesso istintuale che sia conforme e naturale
rispetto alla nuova struttura politica. È però fin troppo evidente
che l’attuale momento storico non consente di ipotizzare l’inizio del processo
utopico in tempi
brevi. Non aleggia oggi, purtroppo,
alcuna carica di rivoluzionarietà che preannunci (sia pur
vagamente) una qualche
epifania. Al tempo di Cristo l’evento era già nell’aria, carico
di presagi. Così fu anche prima del 1848, quando s’aggirava per
l’Europa lo spettro del proletariato. Attualmente invece
nulla (o quantomeno nulla di strettamente quantificabile) lascia
presentire una domanda di Utopia, riscontrabile forse in taluni
semplicemente come bisogno mentale.
Per dar vita a una nuova proposta
politica, non si può non partire dalla prefigurazione di un sistema
sociale in cui tutte le contraddizioni tendano ad annullarsi. Si dovrà
realizzare ciò che i depressi considerano inattuabile, evitando,
beninteso, di sconfinare nelle secche dell’inverosimile. È tuttavia
fin d’ora essenziale, affinché si metta in marcia il treno del
nuovo evento, indicare, con la massima chiarezza visiva
possibile, tutti gli elementi che dovranno determinare il
funzionamento della società che si vuole delineare. Una società necessariamente
strutturata senza classi sociali, senza la proprietà privata dei mezzi
di produzione, senza moneta né mercato né famiglia monogamica, e
dove anche la democrazia non sia più regolata da rappresentanze
delegate di tipo parlamentare. Ma non si tratterà di un semplice
rovesciamento del modello capitalistico. Poiché dovrà essere il
contenuto del nuovo a escludere il vecchio e non il passato a
ingabbiare il futuro. Non conterà quasi più, in quest’ottica, il
momento offensivo (anticapitalistico), bensì quello propositivo che,
con la sua carica seduttiva, superi e sopravanzi il capitalismo. Verrà tralasciata, naturalmente, anche
l’analisi dell’attualità politica, utile ormai solo per
rincorrere, giorno dopo giorno, le mosse dell’avversario di turno.
Le proposte che nasceranno serviranno, oltre che come istigazione a
desiderare l'Utopia, da stimolo per riaprire un confronto politico
di portata strategica, da troppi anni caduto in letargo. E, qualora se
ne determinino le condizioni, si potrà costruire una fitta rete di
ricerca internazionale per stilare il Manifesto dell’Utopia. Di
sicuro il Progetto non potrà essere compatibile con l’attuale modo
di essere della specie umana: da coloro che preferiscono la
divisione in classi della società, per mantenere integro il loro
ruolo di potere, a quelli che gradiscono, tutto sommato, la propria
condizione di sottomessi. Si spera nondimeno che la realizzazione
dell’Utopia possa venire alla luce attraverso un passaggio indolore, anche se
è da ritenere altamente improbabile tale eventualità. Ragion per cui
è d’obbligo assumersi fin d’ora tutta la responsabilità di una
possibile separazione socio-antropologica.
Sebbene la teorizzazione del comunismo
abbia trovato espressione in migliaia di pagine, pochissime sono state
finora le indicazioni circa la struttura, concreta e
funzionante, di una società
costruita a sua misura. Ovviamente, non merita neanche di essere presa
in considerazione la miseria pratica e teorica del cosiddetto
socialismo reale, poiché del tutto estranea ai contenuti
dell’Utopia. Anzi, quelle esperienze hanno avvolto in un alone di
grigiore spettrale l’idea stessa del comunismo. Ma forse questa
ricerca ha già travalicato i confini etimologici di quel termine.
Se il cristianesimo si è alimentato
della insopprimibilità della contraddizione (a partire
dall’antitesi bene/male), il comunismo, che avrebbe dovuto portare
al superamento di ogni contraddizione, non è stato capace di
eliminare neanche quella tra i suoi princìpi e il modello di
transizione. Da un punto di vista metodologico si può certo
reputare corretta l’interpretazione della storia come lotta di
classe. Tuttavia non si può non rilevare che la designazione del
proletariato industriale come soggetto rivoluzionario abbia di fatto
bloccato la costruzione dell’utopia. È stata cioè
arbitrariamente abbinata una classe economica a un progetto politico
tutto ancora da definire, legando erroneamente la classe del lavoro a
quella della mente. Il proletariato, infatti, in quanto classe
nascente dai rapporti di produzione borghesi, pur avendo i requisiti
"oggettivi" per essere l’antagonista della borghesia, manca però
della vera dimensione rivoluzionaria, che consiste nell’essere
portatore di una diversa concezione della vita, in ogni suo aspetto. Il
distacco dall’impianto marxista è perciò la condizione necessaria
per tentare di dislocare la domanda di comunismo dall’alveo della
contrapposizione al capitalismo a quello della consonanza utopica.
L’abrogazione della proprietà privata, ad esempio, non dovrà più
rappresentare una sorta di contrappasso storico (espropriazione degli
espropriatori), bensì corrispondere a una nuova proposta che si
faccia garante della libertà della domanda individuale. Troppo
spesso, invece, la società attesa è stata ricalcata sulla
tela del modello antagonista. In realtà era unicamente il vuoto
di progettualità a determinare la forma della nuova società come
effetto automatico del mero ribaltamento della precedente. Il sogno
idilliaco dell’Utopia, al contrario, può realizzarsi soltanto con
un salto nel pieno, attraverso un’invenzione della mente che
consenta di superare, in direzione dell’amore sociale, i limiti e le
incompatibilità della logica storicizzata della natura umana.
L’unica teoria che finora ha utilizzato l’amore come
pratica politica è stata elaborata dal Dr. Cristo, il quale, anche se
in buona fede, ha fatto della sua etica la più grossa operazione di
mediazione sociale di tutti i tempi. È riuscito difatti a mantenere compattata la
società divisa in classi, adoperando quella prassi come un efficace
collante delle contraddizioni. Del resto solo in tal modo la parità
sociale poteva essere esclusa dal calcolo dei fattori che determinano
l’amore. Che perciò è diventato un concetto neutro, buono per
tutti gli usi. Compito arduo ma essenziale sarà allora mostrare
l’inadeguatezza della proposta cristiana. Non certo per crogiolarsi
nel lutto per la morte di un dio, bensì per costruire una dottrina
superiore, un amore vero tra uguali. Dove l’uguaglianza sia intesa
come libera determinazione di tanti io, comunque tutti
diseguali, tutti diversi uno dall’altro. L’amore, ovviamente, non
è solo emozione sentimentale o erotica. È anzi il vero protagonista
del Progetto Utopico. La sua problematica è parte politicamente
integrante dell’invenzione di una nuova organizzazione sociale che
si alimenti e viva di tale energia spirituale.
|
§ II.
Nota
alla mancanza di note bibliografiche
Q
ualunque testo
«che si rispetti» è
corredato di note bibliografiche. Io me ne esento, essenzialmente per
tre ragioni. La prima è che intendo dare a queste pagine un taglio
deliberatamente antiaccademico. La seconda è che non rivendico
nessuna primogenitura, consapevole come sono che spesso la mia
elaborazione utilizza idee prive di una precisa paternità. O maternità,
come nel caso del femminismo. La terza e ultima ragione è che a me
interessa molto più lo sviluppo di un pensiero che la ricostruzione
del suo albero genealogico. Il borghese diritto d'autore, in
tal modo, si dissolve. E in maniera che non esito a definire prefigurante,
soprattutto rispetto a come si intenderà produrre collettivamente il
lavoro di ricerca. A riprova di quanto detto, non ho difficoltà a
dichiarare che quasi tutto il contenuto di questo testo è
stato già, in qualche modo, pensato e scritto da altri. Purtuttavia,
di tanto in tanto, mi prenderò la libertà di citare dei passaggi con
il nome dell’autore (ufficiale), poiché non assumo come regola
assoluta neanche quella di non dover produrre riferimenti
bibliografici. |
§ III.
‘Utopia’
come vocabolo politico
L’
utopia, come domanda politica, non
appartiene né all’area culturale della tradizione né a quella del
riformismo. D’altro canto, l’etimologia del termine (ou-tópos) contiene già una precisa opzione ideologica,
presentando il suo stesso contenuto come storicamente inattuabile, e
perciò negandolo. La gabbia del suo enunciato è tuttavia solo una
delle spiegazioni del fatto che gli utopisti hanno fin qui proceduto
con il passo del gambero. Un’altra è da collegare alla loro incapacità,
privi com’erano di corrette coordinate metodologiche, di produrre
un’analisi scientifica della società. Anche se i loro sogni erano
impregnati di ideali libertari ed egualitari, quegli utopisti
riuscivano a eclissare il permanere della divisione di classe (tipo il
dualismo tra filosofi-sacerdoti e agricoltori) solo grazie alla
capacità seduttiva dei loro racconti. Non a caso, quindi, in quelle
fiabesche immaginazioni ritroviamo le stesse contraddizioni da cui
intendevano allontanarsi. Va inoltre sottolineato che l’utopia non
è che la trasduzione laica dell’idea religiosa dell’Eden partorita
dalla cultura occidentale. Anche se il paradiso (terrestre) è stato
localizzato in un luogo recondito e inaccessibile della terra, di
forma quasi sempre circolare, chiuso e separato da un gran tratto di
oceano, la produzione dell’immaginario religioso, in realtà, è
stata molto più ricca di utopia rispetto a quanto hanno lasciato in
eredità gli utopisti laici. Nelle rappresentazioni letterarie o
pittoriche l’Eden viene sempre descritto come un luogo in cui
abbondano i beni materiali (rivoluzione industriale) e domina
la felicità (logica del positivo). La proprietà privata
ovviamente non esiste, poiché ciascuno può avere tutto ciò che
desidera (società della domanda). Per accedervi c’è poi
bisogno di un passaporto eccezionale, di una guida angelica (classe
rivoluzionaria), e non tutti perciò possono trovarvi ospitalità
(separazione antropologica). Se però si vuole collocare
l’Eden nella storia, occorre sostituire la letteratura con la
scienza politica. E quindi, con uno sforzo di immaginazione superiore
a quello delle stesse religioni, si dovrà essere capaci di tradurre
il sogno in termini razionali. Il termine ‘Utopia’ è perciò qui
disgiunto da ogni riferimento alla letteratura, religiosa o laica che
sia, sull’argomento. È tuttavia politicamente comodo conservarne
l’uso, dal momento che la parola "comunismo" è stata
completamente sfigurata e depotenziata della sua valenza utopica dalla
teoria e dalla storia di quei partiti-Stato che han preteso di parlare
in suo nome.
È opportuno intanto fissare un paio di condizioni assiomatiche, essenziali per la configurazione dell’Utopia:
1) che essa diventa irrealizzabile
ogni qualvolta è inserita in un contesto non utopico;
2) che non può essere parcellizzata,
nel senso che nessun suo momento può essere decontestualizzato
dall’intero processo.
Va poi sfatata l’opinione corrente secondo
cui l’utopia è bella ma irrealizzabile. Tale luogo comune deriva,
in sostanza, da una plurisecolare rassegnazione al non bello, cioè
dalla convinzione che sia impossibile costruire un luogo in cui ogni
dimensione del vivere entri in equilibrio con le altre, così da
realizzare l’unità tra il bello come forma e l’estasi come
contenuto.
Si parlerà comunque di Utopia solo in un quadro di una società a tecnologia avanzata, in quanto ogni riproposizione del comunismo
primitivo sarebbe regressiva e puerile. La tecnologia, tuttavia, pur
essendo l’unico mezzo in grado di affrancare l’uomo dalla schiavitù
del lavoro ripetitivo, non costituisce, di per sé, né la condizione
né l’orizzonte della liberazione del genere umano.
È inutile che
gli amanti della preistoria si affannino a ricercare nel passato
remoto reperti archeologici di presagio utopico. Se qualcuno ha
bisogno di sentirsi rassicurato o cerca un appiglio che lo autorizzi a
credere, sappia che la storia non ha mai offerto nulla che si
avvicinasse alla Società dell’Utopia. L’esito ultimo, ad esempio,
delle comuni, e in particolare di quelle cristiane, costruite attorno
alla solidarietà assistenziale, è stato quello di assicurare a ciascuna
persona il minimo indispensabile per sopravvivere. Il che, come
risultato, sta in posizione diametralmente opposta al Progetto che qui
si intende prospettare.
In assenza di classi da confortare, poveri da
soccorrere, contraddizioni da sanare, verranno difatti a cadere le
motivazioni di quel mutuo soccorso finalizzato ad alleviare lo stato
di afflizione con il pianto del conforto. Non è che nella Società
dell’Utopia debba esistere soltanto il pianto della gioia, ma
certamente non ci saranno più le sofferenze legate alle svantaggiate
condizioni e, di conseguenza, si dissolverà l’attuale
funzione strategica della solidarietà.
Ovviamente, i degni eredi di chi si
rifiutò di osservare, attraverso il cannocchiale galileiano, la
conformazione fisica degli astri, saranno, a maggior ragione, incapaci
di capire, con gli occhi della mente, i mondi, oggi immateriali, che
verranno qui raffigurati. E sicuramente da costoro, ma non solo,
pioveranno le accuse di predicare la morale peccaminosa dei frutti
proibiti. Ma proprio queste "mele" (di una nuova moralità),
una volta assaggiate e ingerite, apriranno le porte del giardino
dell’Eden, per le quali in verità nessuno mai è passato. Gli
increduli, invece, potranno invocare i fumi della follia. Che sia!
Giacché, senza una dose di entusiasmo, di esaltazione, di furore
della ragione, non si potrà mai avere la forza di muovere
l’Evento della nuova Era. |
§ IV.
Introduzione
alla nuova logica
L
a logica costituisce quel binario
invisibile che garantisce la coerenza di un certo punto di vista
strategico. Una proposta politica che pretendesse di rivoluzionare
persone e cose senza partire da una nuova logica sarebbe perciò un
non senso, in quanto la storia continuerebbe a procedere lungo
l’asse della vecchia logica.
"... ottiene i risultati più
grandiosi applicando la legge logica della natura... che a ogni
passo si rivela una intelligenza universale". "Chi vorrà
negare il mirabile ordine dei fenomeni naturali, la loro armonia,
organizzazione o sistematicità?"
Ma non basta rimanere
incantati dall’effetto scenografico dell’ordine cosmico, per
riconoscere unicità e universalità alla «legge logica della
natura». Se non altro perché tale legge è un meccanismo tecnico
di autoconservazione ed è perciò del tutto indifferente alla domanda
di armonia sociale e morale presente invece nella società
umana.
Che durante l'inondazione un fiume allaghi e distrugga tutto quello
che incontra non dipende ovviamente dalla sua cattiveria, poiché la
cattiveria è un disvalore morale di cui la natura non ha nozione. Lo
stesso vale per la sopravvivenza degli animali, spesso legata
all’uccisione obbligata e sistematica di altri esseri, o ancora per
la prevalente assegnazione al maschio del ruolo gerarchico di
capo-branco.
Una lettura della logica della natura secondo la
scala dei valori etico-sociali porterebbe quindi all’erronea
deduzione che essa è classista e maschista. Ma quasi tutto il
tragitto del pensiero filosofico è stato segnato da quella prima
svista. Ragion per cui, una volta sovrapposto il meccanismo del mondo
delle cose al mondo degli umani, il non-peccato della
natura è diventato (fisiologicamente) ‘peccato d'origine’ e
strutturale dell’umanità. E il male, proprio perché considerato
parte integrante e sostanziale della natura, è divenuto extra-logico
anche per l’uomo.
La letteratura sul paradiso, conscia
della discordanza tra ordine naturale e ordine morale, ha difatti
disegnato il mondo perfetto stravolgendo le regole della natura
animale, così che "... gli animali più diversi, tra i quali
leoni e agnelli, cervi e conigli [vivono] gli uni accanto (a)gli
altri, senza più che alcuna bestia porti veleno e offesa,... anzi [in
modo] che essi siano prodigiosi, utili ed obbedienti".
La potenza
dell’allegoria paradisiaca consiste, quindi, nell’idealizzazione
di un mondo pacificato. Se però tale immaginario potesse divenire
realtà, diverse specie animali sarebbero destinate a estinguersi in
brevissimo tempo e la natura cambierebbe completamente volto.
L’evidente antinomia avrebbe dovuto consigliare di tenere separata,
e quindi non applicare al mondo degli uomini, la logica della natura.
Ma così non è stato. Il pensiero laico, presupponendo un unico
sistema logico, ha finito con il dedurre che la contraddizione
politica è ineliminabile.
La concezione cristiana, d’altro canto,
avendo anteposto l'origine del male alla comparsa dell’uomo
sulla terra, ha reso il peccato extra-storico. Cosicché l'unicità
della logica da un lato e la ‘extra-storicità’ del peccato
dall’altro hanno impedito di entrare in una diversa dimensione di
pensiero.
Chiunque tuttavia avesse solo supposto, prima di Einstein,
l’esistenza contemporanea di più teorie generali, ciascuna
(nel suo sistema di riferimento) valida per tutto l’universo,
sarebbe stato considerato un pazzo. Ma anche quando Einstein ha
dimostrato che la regola del sistema universale è la Relatività
e non l’Unicità, questa asserzione, rivoluzionaria nel campo
scientifico, non ha prodotto, sul piano della filosofia, un’analoga
rivoluzione logica. Non è stata concepita, cioè, una «seconda
logica». Che non solo navighi in sintonia con il contenuto
spirituale dell’Utopia, ma che abbia anche un'essenza capace
di determinare il movimento del concreto. L’esemplificazione più
immediata di ciò può scaturire dalla comparazione tra fisica e
filosofia.
Fino a quando, nel campo della fisica, tutti i fenomeni
venivano spiegati con la meccanica classica, ai suoi princìpi
si attribuiva "validità assoluta e universale". Quando però
quella scienza non è stata in grado di definire alcuni fenomeni resi visibili
dalla scoperta del campo elettromagnetico, sono sorte altre
teorie generali (Relatività e Quantistica) che hanno trovato delle
soluzioni a problemi prima irrisolvibili.
Per quanto riguarda la
logica, si tratta ora di costruirne (o di scoprirne) una diversa da
quella della contraddizione. Fermo restando, ovviamente, che
quest’ultima ben risponde ai vecchi e ai nuovi quesiti sulla società
di classe. Parlare di più logiche significa quindi che possono
esistere più verità, ciascuna valida nel suo ambito di riferimento.
Prima di procedere alla formulazione
di una nuova logica, occorre tuttavia avviare, seppur brevemente, il
confronto con il punto di vista marxiano. Proprio perché da una serie
di errori dovuti all’impostazione teoretica di Marx sono nati alcuni
dei peccati mortali del comunismo storico. Intanto va subito
detto che Marx, nonostante abbia inteso ribaltare la logica di Hegel,
è rimasto profondamente hegeliano. Nel senso che quel capovolgimento
("dalla testa ai piedi"), interessando tutto il corpo di
quel sistema logico, ne ha, di fatto, conservato sostanzialmente
integra la struttura.
L’operazione di ribaltamento, infatti, pur
spostando il punto di partenza hegeliano dalla tesi all’antitesi,
implica comunque la pretesa di affermare negando. Si è riapplicato
quindi quel principio dell’antinomia, che è esattamente agli
antipodi dell’utopia comunista. La società senza più classi
presuppone, invece, la fine della negatività o, meglio, la possibilità
di annientare tutte le contraddizioni dell’esistente, di
emanciparsi, cioè, definitivamente dalla dialettica della
contraddizione. È vero che gli intellettuali comunisti cercavano un
sistema logico che fornisse loro la chiave filosofica per uscire dal
capitalismo, ed è anche vero che, col capovolgimento della dialettica
hegeliana, è possibile innescare questa fuga. Ma è altrettanto vero
che la nuova società continua a operare nella triade
dialettica della contraddizione e perciò nella non-condizione
dell’Utopia.
La logica hegeliana e le sue coordinate etiche
conservano comunque, ancor oggi, una loro attualità, perché ogni
posizione può essere superata soltanto attraverso la negazione della
negazione (negatività
extra-logica). D’altronde, se Hegel sosteneva che "il pensiero
è subordinato all’esistenza del reale, in quanto il reale è il suo
fondamento e la guida della storia", e la storia è stata finora
contrassegnata dalla contraddizione, non deve certo meravigliare che
lo stesso Hegel (e non solo lui) abbia inevitabilmente conferito legittimità
universale a quella logica. Essa peraltro sembrava offrire il
vantaggio di non lasciar nulla fuori, per cui ciò che "doveva
essere, è stato, ciò che è stato, doveva essere" e, di
conseguenza, anche ciò che dovrà essere sarà.
È possibile, allora, entrare in una
nuova relatività, dove non esista più la contraddizione come
elemento che domina il meccanismo della vita?
È possibile entrare
nella positività, come altro sistema, costante e coerente?
È
possibile cotanto cambiamento?
La risposta non può che essere
affermativa. Per comprendere, intanto, come sia pensabile la
molteplicità delle logiche, bisogna partire da una «prima
essenza», cioè da quella sostanza semplice che ne garantisce
il movimento, e dimostrare o che questa essenza motoria funziona
con un ampio ventaglio di sistemi, oppure che esistono più «prime
essenze logiche». A questo proposito, Hegel, pur avendo sostenuto
che il "segno distintivo" di tale essenza motoria è
la «differenza», ha finito poi per saldarla esclusivamente al
processo dell’auto-negazione. Ciò che qui si sostiene è invece la
possibilità, anzi la necessità, di separare quella prima essenza dal
legame esclusivo con la contraddizione, in modo che dalla differenza
scaturisca anche la complementarietà, che compone l’armonia
dell’asimmetria.
Così come – per via analogica – la diversità
delle cariche elettriche dell’atomo non rappresenta uno stato di
conflitto, bensì di conservazione del diverso. Tant’è vero che
ogni atomo, nel suo complesso, si presenta sempre elettricamente
neutro.
Ora, è proprio mediante l’analisi di una percezione
fenomenologica che si giungerà a provare l’esistenza della
logica dell’Utopia.
Ipotizziamo che ogni essere umano
possieda due corpi: quello che ci appare materialmente e quello
che ci avvolge immaterialmente. Questo corpo invisibile si può
definire come una specie di «corazza di protezione» che gestisce e
filtra il sistema delle relazioni tra persone. È, cioè,
un’armatura ideologica, nata dalla conflittualità sociale, con
funzione essenzialmente difensiva. Ci sono però degli attimi
fuggenti in cui le relazioni vengono vissute in maniera candida.
E sono dei momenti particolarissimi e inebrianti, nei quali si
realizza una profonda coesione con l’altro attraverso due passaggi
alquanto elementari:
1) la corazza di protezione scompare;
2) si sprigiona dell’energia.
In entrambi i casi tuttavia non si
crea nulla. L’atto della creazione sta nel
‘rivelarsi’ e nello sprigionarsi di un qualcosa che era già
presente in noi, come fonte di energia originaria. Quell’energia,
tra l’altro, non è generata né dipende dalla contraddizione. E lo
si può desumere dal fatto che il suo svelamento avviene
proprio nell’attimo in cui le contraddizioni tendono ad azzerarsi.
In tale processo neanche la mediazione è più presente. Non solo
perché non c’è traccia di conflittualità, ma anche perché il
ciclo dell’autoconservazione sembra ruotare dentro l’essenza di
ciascuna forza. E la sintesi, se di sintesi si può parlare, è come
se avvenisse dentro ciascun segno.
Sempre da un punto di vista
fenomenologico, è evidente che il raggiungimento dello stato di
estasi avviene attraverso un trasbordo diretto: passando, cioè,
in modo reale e immediato, da una relatività a un’altra. Ed è una
energia che, quando si rivela, si manifesta sempre allo stato
puro, nel senso che la sua qualità e la sua forza non cambiano mai
di segno. Essendo quindi purezza in sé, la si può definire l'Energia del puro essere.
Sembra, quindi, già esistere nella
mente un sistema di interazioni capace di esercitare una precisa polarizzazione
magnetica o, più precisamente, di orientare le funzioni della
vita di relazione secondo una direzione fissa: il principio del
piacere. Forse l'energia del puro essere non è interamente
traducibile in nessuno dei linguaggi scientifici finora conosciuti.
Certo è, comunque, che alla sua conoscenza e alla sua liberazione
sono legati il destino e la fattibilità stessa dell’Utopia. Ma di
che cosa è fatta, intanto, la corazza che la tiene imprigionata? Si potrebbe raffigurarla come un mosaico di vetrini colorati, ciascuno dei
quali rappresenta una categoria etica. Così che ogni
variazione cromatica produrrebbe nella persona un cambiamento
dell’essere. E i colori potrebbero mutare da un grado massimo, il
trasparente, quando si realizza la più alta emissione di energia (che
si tramuta in illuminazione totale o estasi), a un grado minimo, il
nero, quando l’energia non riesce a liberarsi neanche di poco. Il
processo dello ‘svestimento’ è certo determinato dalla mente, ma
anche dal bisogno di attivare relazioni a valore d’uso e non di
scambio. E questo processo avviene e può avvenire in tutti gli esseri
umani, in condizioni particolari. È ovvio, ora, che tali condizioni
sono squisitamente politiche. Per chi vive in un mare di
contraddizioni, sono infatti quasi inesistenti le occasioni per
entrare in quello stato di ebbrezza.
Tutto ciò non significa, però,
che sia sufficiente un atto unilaterale perché, all’apparire
dell’energia, si determini una nuova qualità di rapporti. O
l’atto è bilaterale, è collettivo (quindi politico), oppure la
volontà unilaterale si esaurisce in una donazione personale priva di
efficacia. Anzi, ogni atto di apertura unidirezionale (nel quadro
della contraddizione) diventa un atto di ingenuità, che espone chi lo
pratica alla pura e semplice derisione.
È altresì del tutto
arbitrario pensare di definire quest’onda elettromagnetica come una
fonte di divinità, se non addirittura identificarla con la divinità
stessa.
Per meglio precisare i termini della prova fenomenologica,
sarebbe opportuno, tuttavia, seguire anche altri itinerari (in
particolare quelli legati alle religioni orientali), che giungono a
dei risultati apparentemente simili. Quei percorsi, però, viaggiano
nella direzione dell’estasi puramente individuale. In ogni caso, ciò
che adesso interessa maggiormente è mostrare che la fonte del
positivo «c’è», che già esiste, che è parte integrante
del nuovo sistema logico e che, accumulandone una gran quantità,
complessa e diversificata, si può approdare direttamente alla qualità
sociale dell’Utopia.
La negatività (extra-logica) di
Hegel, dunque, può essere vinta, segno che forse tanto extra-logica non
è. Si è arrivati, così, a livello intuitivo, a una prima
definizione della logica dell’Utopia come relatività logica del
positivo. Per chiarirne ulteriormente le coordinate, potrebbe
essere utile, a mo’ di parallelismo concettuale, rifarsi al processo
connesso alla velocità della luce secondo la teoria di Einstein. Non
si tratta ovviamente di ipotizzare una relazione meccanica tra fisica
e Utopia, ma di stabilire un’analogia forte tra la teoria della
relatività, che ha aperto nuovi scenari scientifici, e la logica
dell’Utopia, che può fare da supporto a inedite configurazioni
sociali. Dunque, come in natura, in condizioni prossime alla velocità
della luce, si determinano i fenomeni della relatività, così nel
mondo umano, quando la velocità sociale si avvicina alla
dimensione-limite (annullamento della contraddizione) si realizzano
fenomeni sociali più o meno vicini alla dimensione del positivo
utopico. Oltre la velocità della luce, si sa, non si può andare.
Basta ricordare che, per aumentarla anche di un solo centimetro al
secondo, occorrerebbe una forza infinita. E come non c’è nulla
(nella natura granulare di questo universo) che possa oltrepassare
quel limite, così non c’è nulla, nella logica umana, che possa
andare aldilà dell’Utopia. Il limite della velocità della luce
equivale, perciò, al massimo della felicità possibile, ma non a una
condizione super-umana.
La religione cristiana, invece, ha
accostato il limite del finito (l’amore universale) all’infinito
in sé (Dio).
L’idea dell’utopia è stata quindi apparentata a
quella dell’irraggiungibile infinito, mentre Dio, ridotto a valore
umano, ha subito una vera e propria de-assolutizzazione. Tuttavia
l’amore, pur essendo il più sublime dei valori, non può che
proporsi come una peculiarità dell’umano. Ragion per cui Dio non può
essere sinonimo (neanche) di amore. Va certo riconosciuto che tramite
l’identità Dio-amore gli uomini hanno ricevuto l’ingiunzione di
amare. Ma è anche vero che a quel verbo è stata tolta la
caratteristica del godimento. Si tratta, allora, di scoprire un altro
concetto di amore, compatibile con la nuova logica. E, una volta che
si sarà approdati a tale scoperta, si sbloccherà (quasi sboccerà)
buona parte del progetto esecutivo dell’Utopia.
Rileggendo le risposte dei primi
pensatori dell’Occidente alle domande sull’Essere, sul Bene, sulla
Verità, ecco che appare in tutta la sua limpida chiarezza il senso di
potenti intuizioni quali "conosci te stesso" di Socrate e
"in interiore homine habitat veritas" di Agostino. Ma allora
quelle parole erano separate dalle cose e come sospese a mezz’aria.
Oggi, invece, è possibile asserire che nella mente dell’uomo
alloggia davvero una ragione (la logica del positivo) capace di fargli
da lume e da guida sulla via della costruzione della felicità sulla
terra. Gli attuali ‘filosofi dell’Io’, dopo millenni di ansietà
speculativa, dopo che "nessuno è arrivato a se stesso",
hanno concluso che non c’è nessuna cosa da trovare o
costruire dentro di noi, per cui "se il dentro deve essere
un posto, l’Io è un posto vuoto". Anche se poi attenuano il
loro nichilismo affermando che ciò "non equivale a sostenere che
l’atto di guardare in quella direzione sia inutile".
Ma se la natura "a ogni passo si
rivela una intelligenza universale", perché mai questa
intelligenza dovrebbe arrestarsi sulla soglia del mondo delle cose
e degli animali? Perché mai questa natura intelligente
diverrebbe poi incapace di fornire agli umani un’altra logica,
compatibile con l’espressione più alta della loro etica? La verità
è che questi filosofi, epigoni di una grande tradizione, non potranno trovare il baricentro dell’Essere, non essendo sintonizzati
con il cuore pulsante del nostro Tempo, che è il bisogno di Utopia.
Ora comunque nulla appare più avvolto nelle nebbie del mito, poiché
la spiritualità verso cui si tende è palpabile.
È tempo perciò che
la celestialità diventi consuetudine quotidiana. Un cosmo sta per
spalancarsi sul vecchio cosmo. E sicuramente non sarà neanche
l’ultimo cosmo accessibile all’uomo. |
§ V.
Religioni
e utopia
P
arlare di Dio è stato quasi sempre
problematico per chi si è collocato in una prospettiva
rivoluzionaria. Ma la contrapposizione politica alle religioni ha
indotto al rifiuto del trascendente, producendo così una spiritualità
e una sensibilità di gran lunga inferiori a quella religiosa. Come
se, osservando l’abbazia di San Galgano, priva del tetto di
copertura, si venisse colpiti solo dal cielo attraversato da nubi o
dalla geometria degli astri. Non si tratta comunque di sciogliere
l’eterno dubbio su Dio, quanto di provare che l’etica religiosa non è né la
‘teoria’ in assoluto né la più alta affermazione della vita.
È noto che un ruolo non marginale
nell’invenzione della religione è stato giocato dal bisogno di
elaborare, secondo un modello piramidale con all’apice il concetto
della divinità, una teoria che spiegasse il processo del divenire
dell’universo, della natura e degli esseri umani. Su tale
discendenza verticale si sono poi fissati i princìpi metafisici e la
relativa architettura politico-sociale che ne è conseguita. L’etica
umana è stata perciò costruita sull’imposizione di un "dover
essere" religioso, piuttosto che a partire dalle norme di una
ragionata convivenza. In quella prima fase, d’altronde, per imporre
e far accettare regole sociali più avanzate, era forse necessario
accreditare l’esistenza di un mondo sovrannaturale che superasse la
parzialità e la finitezza dell’uomo. In tal modo la specie umana ha
potuto prendere le distanze dalla sua radice primitiva, saldamente
ancorata alla istintualità, per approdare a un primo sistema di
rapporti sociali mediati. Ma se le religioni hanno potuto convivere
con l’evoluzione delle società è perché, tutto sommato, le società
hanno ruotato attorno ai loro capisaldi e non viceversa. Utilizzando
un linguaggio sentenzioso e senza mai staccarsi dal grande tema della
salvezza eterna, hanno parlato e parlano più compiutamente di
politica di quanto non sappia fare, ancora oggi, qualsivoglia
ideologia. In questo senso le religioni fanno più politica con la
loro filosofia morale che non i partiti con le loro alleanze e
strategie. Questo spiega anche perché le religioni, diversamente da
quanto avviene per gli Stati e le forme di governo, sopravvivono agli
scandali e alla corruzione, a inesattezze anche grossolane, a guerre e
scismi. Spesso, anzi, le loro pecche sono state addebitate a errate
applicazioni dei princìpi, così che l’invocazione del ritorno
alle origini ha scavalcato a piè pari l’analisi delle loro antinomie
strutturali. Ma nessuna deviazione, neanche la più
grave, ha mai modificato i fondamenti della loro filosofia morale, che
sono rimasti sostanzialmente in linea con il messaggio essenziale dei
fondatori. Se da un lato tuttavia è possibile scoprirne i raggiri,
dal momento che basta trovarvi «una sola» imperfezione per
escludere l’origine divina delle religioni, dall’altro, la
dimostrazione delle loro antinomie, da sola, serve a ben poco. Il
bisogno di rassicurazione continuerà infatti a ossigenarsi con il
respiro metafisico della preghiera, poiché quella pratica è così
consolidata da apparire impermeabile a qualsiasi critica. In tal senso
(questo) Dio non è ancora morto, e non è detto che, quando si sarà
scoperta la strada della felicità terrena, l’idea dell’Assoluto
debba necessariamente morire.
Se il Dr. Cristo ha individuato nella
povertà lo strumento della liberazione degli uomini, è anche perché
non è riuscito a concepire la ricchezza come valore positivo. Nelle
società pre-industriali, d’altronde, le masse vivevano una vita così
indigente che neppure un’equa distribuzione della ricchezza
esistente avrebbe potuto migliorarla in misura significativa. Di
conseguenza per millenni la miseria è stata assunta come condizione
naturale. Ed essendo inimmaginabile (utopica) la produzione di una
gran quantità di beni e ancor più la loro diffusione di massa, anche
le ideologie erano prigioniere della povertà. Ecco perché la
tensione verso la società del meno peggio (la proposta
cristiana) era il massimo cui si potesse aspirare. E difatti il Dr.
Cristo non solo ha supposto (dogmaticamente) che la povertà non
potesse essere eliminata, ma è giunto addirittura a indicarla come
valore. In verità (è proprio il caso di dire "in verità")
Gesù, anche se in buona fede, ha solo illuso i poveri di poter
arrivare sul piolo dei primi. Imponendo loro di restar poveri, e
quindi ultimi, non ha fatto altro che ribadire, consapevolmente o no,
che la scala di classe è l’unico metro possibile della storia
umana. Ai cristiani infatti non si è mai vietato di possedere
schiavi, mentre agli schiavi si è comandato di amare il proprio
padrone. In realtà soltanto nel Settecento, con la nascita del
pensiero liberale, è stata messa in discussione la schiavitù, e non
certo grazie al cristianesimo, che (in questo) ha seguito le orme del
pensiero di Platone e di Aristotele. E tale ‘svista’ non è stata
casuale. Ma è fin troppo ovvio che la felicità non può realizzarsi
in presenza della povertà o della differenza di classe, bensì in un
quadro di sana ricchezza. Di una ricchezza, cioè, che è sana
perché ricca, contemporaneamente, di beni materiali e spirituali. La ricchezza della povertà rispecchia, al contrario, uno stato di
desolazione esteriore che non può non divenire interiore, fino a
coincidere con l’infelicità. L’aspirazione a una sana
ricchezza, che rappresenta la premessa a ogni progetto utopico,
manca però totalmente al cristianesimo, ridottosi a gestire
l’organizzazione pauperistica dei bisognosi. Oggi, invece, può
nascere il desiderio del molto meglio (l’idea centrale
dell’Utopia), poiché finalmente si può immaginare una società più
sviluppata del capitalismo. Che comunque ha il merito storico di aver
fornito la dimostrazione tecnica di come, attraverso la
rivoluzione industriale, si possa moltiplicare in modo laico "il
pane e il vino" e sconfiggere così il dogma della povertà.
"Beati voi, che siete
poveri", recita il Vangelo. E così di seguito:
"Beati voi, che ora avete fame, [...] Guai a voi, che ora siete
sazi, [...] Guai a voi, che ora ridete, [...]".
Ma non ci sarebbe più beatitudine se ognuno vivesse in condizioni
materialmente agiate e ricco di spiritualità amorosa?
Ora, uno dei limiti strategici del Dr.
Cristo è che il razzo della sua liberazione non riesce mai veramente
a innalzarsi, incatenato com’è alla terra dal dovere della povertà
e da un amore di tipo sacrificale. Che, non potendo essere desiderato,
è divenuto un atto di dolore (l’amore della Santissima Addolorata),
accreditato falsamente come il più alto degli amori. È evidente, a
questo punto, che fatica e travaglio siano connaturati alla promessa
cristiana. L’amore di Cristo perciò è essere mediocre,
perché mediocre è la forma di vita che Egli ha immaginato. Strano a
dirsi, ma ciò che manca alla proposta di Gesù, di Colui che ha
postulato l’amore come verbo onnipresente, è appunto la forza
onnipotente del desiderio: la sola capace di far ardere d’amore
gli esseri umani. Anzi, per sopperire all’assenza di una sana
ricchezza e di un sano amore, è stato frapposto un baratro
invalicabile tra la
felicità irrealizzabile nel regno umano e quella custodita
esclusivamente nel regno dei cieli.
Nonostante ciò, sarebbe falso sostenere che nel cristianesimo non sia
presente la domanda di utopia. L’idea del paradiso ne è la
dimostrazione. Ma quella domanda è stata pignorata dal comandamento
religioso, che ha mutato il bisogno di amore umano in bisogno di amore
divino. Di tracce utopiane rimangono perciò, nel messaggio cristiano,
solo dei frammenti indecifrabili, poiché la religione ha trasferito
la domanda del paradiso utopico fuori dal mondo reale, eludendo il
progetto originario dell’Eden nello spazio e nel tempo della vita.
In questo modo l’amore c’è, ma non si vede, non si tocca, né
tantomeno può scendere in mezzo a noi.
Il pregare, in questo senso,
rappresenta la più straordinaria invenzione (psicologica) relativa ai
modi di comunicazione tra uomo e Dio, poiché permette non solo di
instaurare un dialogo con la divinità, ma anche di entrare in "possesso" del suo amore. La preghiera è infatti simile a una
telefonata che non esige risposta. Anzi, presupponendo che Dio stia
sempre in
ascolto, ogni argomento può divenire oggetto del proprio
interrogarsi. Se la leva del pregare è nel dio immaginato, la sua
potenza è, quindi, soltanto nel credente, cioè nel monologo
interiore. L’essere espressa in forma rituale è infatti parte
integrante e sostanziale del suo contenuto psicologico. E oltretutto
il dialogo in absentia possiede un potere evocativo e suggestivo
senza pari. Se da una parte tuttavia non si intende escludere la
possibilità di una preghiera laica come forma di concentrazione dello
spirito, dall’altra è fin troppo evidente che la preghiera
religiosa risponde a ben altre esigenze. Rappresenta quasi sempre
l’ultima spiaggia davanti alla morte o alla necessità di alleviare
le sofferenze. La forza della sua suggestione non solo placa, ma
fornisce anche un sostegno immaginario, al tempo stesso evanescente e
forte, labile e autorevole, e perciò più «solido» di quelli
concreti e razionali.
La preghiera contiene, dunque, tutta la forza
del bisogno e tutta la debolezza della risposta differita al bisogno.
Salda tuttavia la distanza e la contraddizione tra realtà supposta e
realtà vissuta, cioè tra amore e non-amore, e si propone come il
principale strumento terapeutico di liberazione dal male, entità
indefinita (extra-logica) che sovrasta, come presenza naturale,
ogni paesaggio umano.
"Ego te absolvo a peccatis tuis..."
Questo tracciato (che ben esemplifica
la logica del cristianesimo) è tutto legato alla visione del bene
come sottrazione del negativo. Anziché infiammare l’anima di
desiderio, si comanda infatti di non fare ciò che non va
fatto. Per cui liberarsi dal male, come dal peccato, si risolve in
un’operazione che toglie e non aggiunge nulla. E proprio perché
suppone un futuro immodificabile, tale operazione prevede, con
matematica certezza, che dopo il perdono si debba tornare a peccare,
così da rendere l’uomo da una parte obbligato e dall’altra libero
di sbagliare sempre. Il peccato non è perciò utilizzato come
elemento di analisi sociale per indicare un diverso sistema di
rapporti che spezzi la coazione a ripetere. E la riflessione che
innesca si risolve, in definitiva, tutta nell’interiorità del
soggetto. Ragion per cui l’intero meccanismo è raffigurabile come
la corsa prevedibile di un treno che ritorna sempre nelle stesse
stazioni.
Analizzare la natura del peccato, d’altronde, equivarrebbe a esaminare le condizioni che lo determinano. E ciò porterebbe
inevitabilmente alla messa in discussione di tutta l’architettura
sociale. Il dio immaginato, infatti, non contempla la possibilità
di altri percorsi, ma soprattutto non ha interesse a che gli uomini si
emancipino. E intanto, avendo avocato a sé tutto l’amore, quel dio
autorizza la flagranza di reato.
L’incurabilità del peccato diventa
perciò, prima ancora che trasgressione delle regole, l’unica vera
regola eterna, dato che al di fuori dei comandamenti passivi del non fare non sono stati mai indicati quelli attivi del
fare
positivo. Una teoria che pretenda di essere veramente divina
dovrà, allora, più che indicare la mediazione delle contraddizioni,
realizzarne la definitiva soppressione. Dopodiché i
comandamenti-divieti non avranno più ragione di essere, venendo a
cadere le condizioni del loro determinarsi. Non più quindi i
comandamenti del non fare, bensì le regole della felicità.
Questa è la vera profezia mai rivelata!
Ora, creare una nuova socialità è
molto difficile, molto più difficile che inventare una religione,
molto più difficile che inventare Dio.
Verrebbe voglia di dire che il
concetto dell’Utopia e il concetto di Dio si equivalgono,
nel senso che finora nessuno li ha mai conosciuti. Un dio, però, è
stato inventato e sarà sempre possibile inventarlo, poiché nessuno
potrà mai dimostrarne la non-esistenza. Creare l’Utopia significa,
invece, sottoporne la validità a una permanente verifica. Anche per
questo la progettazione dell’Utopia sarà molto più complicata
dell’invenzione di Dio. Ma quando si sarà realizzata, si entrerà
in un concetto più ampio dell’attuale idea del divino.
Se qualcuno tuttavia pensa di rinunciare alla ricerca sull’Infinito, costui
rinunci pure alla sua attività di
pensiero. |
§ VI.
«Storia
comunista» e Utopia
L
a metodologia marxiana, essenziale
per scardinare l’idea di naturalità della società di
mercato, non può tuttavia essere assunta come riferimento concettuale
da chi cerchi di immaginare le regole di una società
completamente nuova. La forma di quel comunismo è nata difatti da un
mero ribaltamento della società borghese e le esperienze che ne sono
derivate non hanno partorito che un capitalismo rovesciato. Va
rammentato, a ogni buon conto, che Marx parlava del comunismo come
"ricchezza qualitativa dei liberi bisogni umani". Ma la
mistificante interpretazione che ne ha fornito il cosiddetto
socialismo reale ha, in effetti, generato tutt’altra cosa. Se questo
è vero, è anche vero però che la degenerazione è avvenuta perché
già dentro quel primo embrione di teoria erano presenti le
contraddizioni che si sono poi storicizzate. Non è plausibile,
infatti, che a partire da una certa teoria si possa costruire una
storia di segno totalmente opposto. Rimane, in ogni caso, senza
risposta la questione dell'assenza di critica alla mancata realizzazione
del progetto comunista da parte di chi doveva esserne il garante.
Risulta inspiegabile, cioè, che proprio la classe operaia non abbia
mosso la benché minima critica alle contraddizioni di quella storia
che l’ha vista (anche) protagonista. Tra l’altro, in un regime
autoritario, è pur sempre possibile organizzare una resistenza e
quindi un’opposizione politica. Invece, né resistenza né
opposizione ci sono state da parte del proletariato, bensì solo
silenzio, che politicamente equivale a consenso.
Altro che soggetto
ideologico, altro che classe rivoluzionaria!
Il femminismo, a
conferma di quanto si è detto, non è nato tra le donne proletarie
e rivoluzionarie del socialismo reale. Eppure la lotta di classe
donna-uomo precede la lotta di classe proletariato-borghesia.
Ora, la
ragione non può che essere una sola. Le masse del proletariato, sia
uomini che donne, per quanto effettivamente interessate a migliorare
la propria condizione, non esprimono, in quanto tali, il bisogno di
una forma di vita che vada nella direzione dell’Utopia. Benché sino
a oggi nessuna proposta abbia saputo cogliere compiutamente la domanda
dei desideri positivi, va tuttavia sottolineato che c’è una
sostanziale differenza di responsabilità tra le teorie che hanno
messo intenzionalmente al centro della loro finalità la seduzione
paradisiaca della felicità e quelle che hanno semplicemente
utilizzato le masse come forza inerziale. I contadini seguaci
di Lutero, ad esempio, eccitati dalla dichiarazione che l’Anticristo
domiciliava presso la corte papale, credettero immediatamente che, sulla
scia di una riforma religiosa, si potessero spalancare le porte ai
loro desideri di giustizia sociale. Quelle 95 Tesi, però, erano nate
esclusivamente come espressione di polemica teologica e solo
impropriamente avevano assunto una valenza politica. In quel caso,
perciò, non c’era alcun obbligo, da parte del monaco di Wittenberg,
di difendere le classi subalterne o di fornir loro un preciso progetto
di liberazione sociale. Coerentemente, Lutero poté difatti replicare
alle masse (rivolgendosi ai Signori), usando le stesse parole
della Chiesa di Roma: "Trattare umanamente i propri sudditi,
affinché i sudditi rispettino le leggi dei padroni".
Le responsabilità della storia
comunista sono, invece, molto più gravi.
Il comunismo infatti, fin
dalla sua nascita, ha dichiarato di voler sventolare la bandiera della
liberazione. Ha tradito perciò i suoi stessi princìpi. La fine di
quella parabola sembra ora allontanare anche l’idea della speranza
utopica. Ma non era certo quell’esperienza a tener tesa la molla
dell’utopia. Anzi, la capitolazione di quell'impero del male
può rappresentare la condizione ideale per la nascita di un autentico
Progetto, proprio perché quell'ipoteca di primo grado non grava
più sull’idea stessa di Utopia. |
§ VII.
Sul
futuro del capitalismo
C
on l’avvento della tecnologia
avanzata, l’offerta è divenuta pressoché illimitatamente
incrementabile. E ciò ha determinato l’interesse del capitale ad
aumentare la domanda, finora frenata, per qualità e quantità, dal
basso potere d’acquisto delle masse. Ma neanche questo, ora, è più
sufficiente. All’inizio della rivoluzione industriale, qualunque
merce venisse prodotta, prima ancora che essere una novità,
soddisfaceva un’esigenza primaria. Attualmente, più o meno appagato
quel bisogno, si stenta a realizzare prodotti completamente nuovi,
capaci cioè di proporsi come necessità di acquisto. È come se
si fosse determinata una specie di povertà dei ricchi; nel senso che tutti hanno
tutto, ma nessuno ha veramente quello che desidera. Le attuali tendenze alla mondializzazione hanno inoltre
invertito la rotta tenuta nei decenni precedenti. Le sacche di arretratezza
cominciano a non essere più funzionali ai profitti, dato che la
povertà non consuma e non compra nulla. Motivo per cui il capitalismo
tenterà, nell’immediato futuro, di favorire la scomparsa della
povertà (o, meglio, di aumentare la percentuale delle fasce ricche
nei paesi poco industrializzati), poiché solo in tal modo potrà
realizzare il mercato mondiale in tutta la sua ampiezza. Se la
borghesia, infatti, ha abbracciato la bandiera di un certo pacifismo, è perché
soltanto una società pacifica può assorbire una gamma e una
quantità crescente di nuovi prodotti. È ovvio che questo tipo di
pace (opportunistica) sarà mantenuta finché gli affari ne
alimenteranno il bisogno, altrimenti cesserà ogni interesse a
conservarla. Anzi, è prevedibile che se in tempi abbastanza brevi non
ci sarà una nuova generazione di prodotti a ridar fiato alle vendite,
si porrà la ragionata necessità della guerra per riattivare la
domanda.
Ma cosa ci serba il capitalismo nel
futuro non prossimo?
Quali potranno essere i suoi nuovi scenari?
L’ago della bussola va sicuramente verso la fine dell’Età del
Lavoro. E quell’evento coinciderà con la realizzazione degli Esseri
Tecnologici, cioè di soggetti artificiali capaci di sostituire
gli uomini in ogni fase del processo lavorativo. L’elemento inedito
di queste macchine sarà la loro completa autonomia. Nel senso
che avranno la capacità di accrescere il proprio apprendimento, di
‘partorire’ altre macchine e di eseguire ogni tipo di operazione:
dalla progettazione alla costruzione, dalla consegna al riciclaggio.
Quando compariranno tali Esseri, esauritasi la necessità di lavorare,
verrà a dissolversi anche l’attuale struttura politica e culturale,
poiché attorno al lavoro è stata costruita non solo
l’organizzazione dei bisogni materiali, ma anche larga parte della
concezione ideale della società.
Per l’attuale assetto economico,
le conseguenze potrebbero essere catastrofiche, giacché, venendo meno
il lavoro, verrebbe meno anche il criterio che determina la formazione
del valore della merce. E, rompendosi il meccanismo con cui si forma
il denaro, il funzionamento del capitalismo potrebbe entrare in caduta
libera.
Bisogna stare attenti, però, a non cadere nell’attesa
fatalistica del crollo del sistema o a concepire come
automatico il passaggio all’Utopia. Prima di tutto perché infinite
possono essere le nuove vie del capitalismo. E poi perché da nessuna
parte sta scritto che questi nuovi scenari preparino le condizioni per
la qualità della vita richiesta dall’Utopia. Gli Esseri Tecnologici
potrebbero, difatti, svilupparsi anche in regime di proprietà privata
dei mezzi di produzione e dar luogo a nuove forme di schiavitù sociale compatibili perfino con la soppressione del denaro. |
§ VIII.
Tra antagonismo
e rivoluzione
S
i sta forse realizzando il sogno di
quei pensatori del Settecento che immaginavano un modello di
capitalismo libero e aperto. Libero, in quanto tendente a eliminare tutti
gli ostacoli all’acquisto della proprietà. Aperto, perché chiunque
esprimesse un’alta produttività avrebbe accesso ai vertici della piramide
sociale. In ogni caso, l’architettura mobile dell’attuale società,
modificando continuamente la posizione produttiva, ha fatto perdere
stabilità anche alla configurazione strutturale della classe operaia. Non sono
questi, tuttavia, i soli motivi per cui è entrato in crisi il modello
marxista di classe rivoluzionaria.
In realtà, anche se nessuno si è
mai sognato di affermare che la classe operaia è rivoluzionaria a
prescindere dall’opzione politica, di solito questa considerazione
è stata lasciata scorrere come acqua sul marmo. Nessuna classe
subalterna, del resto, nasce rivoluzionaria. La classe operaia,
infatti, prima ancora di avere un ruolo antagonista nei confronti di
chi la sfrutta, è conforme all’utilità della classe che l’ha
partorita. È perciò tutta interna a questa utilità la sua prima natura politica, che la connota come soggetto sociale
privo di autonomia logica e ideologica.
All’ambiguità strutturale
del proletariato il marxismo ha cercato di sopperire sostenendo che
"le posizioni teoriche del comunismo non poggiano sopra delle
idee o princìpi inventati o scoperti da una nuova teoria, ma sono
l’espressione generale dei rapporti effettivi di una lotta di classe
già esistente". Ma come può la madre-storia generare le
"posizioni teoriche del comunismo", se è gravida di
contraddizioni e se non ha mai conosciuto la dimensione di equilibrio
richiesta dall’Utopia?
E non è tutto.
Se l’atto di nascita
dell’uomo è nella storia di classe, lo "sviluppo delle
condizioni storiche oggettive" innesca, sì, un processo
evolutivo ma tutto interno alla società di classe. Lo sbocco naturale
di questa storia non può essere perciò che l'utopia liberale.
La nuova classe rivoluzionaria non
deriverà quindi da un soggetto storico, proprio perché
storicamente non c’è stata rottura bensì continuità, e neanche da
un soggetto economico, poiché il vero soggetto del capitalismo
è l’imprenditore. Le altre classi, difatti, non sono che soggetti
al suo servizio. Non basta tuttavia creare una nuova posizione
teorica perché sia possibile una nuova storia. Senza le condizioni determinanti legate all’esplodere delle contraddizioni, il
meccanismo messo in moto dalla Teoria Utopica non consente, da solo,
il salto nella nuova Era.
La legge che muove le classi
subalterne è il terzo principio della dinamica trasferito sul
terreno dei rapporti sociali, cioè una reazione uguale e contraria
allo sfruttamento subìto.
Per entrare in una nuova costruzione (ideale
e materiale) occorre, invece, far riferimento a una forza che abbia
una sua energia autonoma. E questa forza non può essere che la
tensione verso l’Utopia. Il proletariato, sosteneva Marx, "non
avendo più nulla di proprio da salvaguardare" e non possedendo
fini particolari, non può avere che finalità generali. Per queste
ragioni i proletari azzereranno le "sicurezze private e le
guarentigie finora esistite [...] per mutare le condizioni di se
stessi e degli altri". Ma non è detto che non aver "nulla
di proprio" significhi necessariamente volere il proprio di
tutti. Né che la mancanza di "fini particolari" induca a
perseguire fini generali. Il capovolgimento dei bisogni
negati non produce cioè automaticamente la domanda di Utopia. E
soprattutto, come può il «nulla» rappresentare la proposta di un
diverso pieno?
È infatti infondato ritenere che il proletariato, nel
momento in cui si contrappone alla borghesia, intenda edificare un
nuovo modello di società che vada nella direzione del comunismo.
Prove inconfutabili ne sono i fallimenti, per difetto di spinta
ideale, di tanti sedicenti movimenti rivoluzionari. La classe operaia,
in realtà, è stata estrapolata come classe rivoluzionaria sulla base
della categoria del lavoro, cioè dei rapporti di produzione nella
società di classe. La categoria del lavoro, però, non è una
categoria ideologica (una posizione teorica). Risulta perciò
improponibile un rapporto di derivazione meccanica tra lavoro
subalterno e ideologia utopica.
Gran parte delle lotte operaie non
sono state difatti che aspre battaglie sindacali. E non a caso,
superato il momento dello scontro, quasi sempre la classe operaia si
è riadagiata nel suo ruolo di classe subalterna. Non si vuole certo
svuotare di significato e d’importanza il patrimonio politico della
classe operaia, che ha il merito storico non solo di aver difeso gli
spazi di democrazia dentro e fuori la fabbrica, ma anche di aver
ampliato l’orizzonte del capitalismo e, più in generale, della
cultura tradizionale. Né si vuole escludere che ci siano stati
momenti di reale consonanza tra contrapposizione al capitale e domanda
utopica. Si vuole solo correggere l’errore di chi ha innalzato
il proletariato agli altari come classe rivoluzionaria per
definizione.
Per determinare le forze genuinamente
interessate all’Utopia, è necessario invece entrare in una logica
nuova.
Anziché una «classe del lavoro», tenderà
infatti a determinarsi una «classe della mente». E la mente si
configurerà appunto come l’incarnazione stessa della nuova logica,
dei nuovi bisogni e della scelta strategica di vivere nella dimensione
del valore d'uso, cioè con pienezza nel tempo.
Nulla toglie però che gli individui che realmente
impersonino i bisogni utopiani
possano provenire anche da
classi storicamente borghesi.
E se pure la nuova classe dell’Utopia
potrà trovare il suo humus tra le classi antitetiche alla
borghesia, essa non conserverà in ogni caso nulla delle aggregazioni
rivoluzionarie tradizionali. |
§ IX.
Le
donne come classe e non classe
I
l primo scontro di classe fu vinto
dal maschio, che instaurò, com’è noto, la sua dittatura sulle
donne. E per quanto ci si rifiuti di raggruppare tutti gli uomini
in un’unica e stereotipata categoria, non è tuttavia né
semplicistico né ideologico parlare di una classe dominante maschile
contrapposta a una classe femminile dominata.
Nel rapporto storico donna-uomo le
relazioni e le mediazioni si sono però da sempre intrecciate in
maniera del tutto irregolare. Le donne, cioè, sono state
contemporaneamente sottomesse e amanti, oppresse e amate. La donna è
stata anzitutto obbligata a inventarsi una coabitazione amorosa
nella conflittualità che, evidentemente, non poteva non plasmare
profondamente il suo comportamento. Al punto che, pur essendo
l’antitesi del maschio, non si è mai posta, storicamente, come
sua antagonista.
Non desta perciò meraviglia che la logica femminile
prenda le mosse dalla suscitazione del desiderio, che è
l’esatto capovolgimento del meccanismo della reazione. Nel senso che
ogni contraddizione, anziché essere respinta, viene dalle donne non
solo assorbita ma anche rigenerata e restituita al maschio come atto
d’amore.
È delle donne infatti la prerogativa del perdono, mentre
è dei maschi quella del lasciarsi perdonare. L’uomo, così,
non si redime, poiché le sue colpe sono di fatto emendate dalla
compassione amorosa di colei che ha subito l’offesa. Proprio come se
l’oblazione venisse pagata da chi ha ricevuto il torto e non da chi
l’ha commesso. In tal modo il maschio, se da una parte è attore
della contraddizione, dall’altra è spettatore della sintesi,
operata esclusivamente dalla donna. Un circuito certo autonomo, ma che
agisce da sotto-dialettica della logica maschile.
Le donne, insomma,
hanno giocoforza preferito la ‘pace’ della sottomissione allo
scontro. E quest’atteggiamento ha probabilmente consentito la
realizzazione dell'unità nella disunità. Ma, nel porgere
continuamente l’altra guancia al maschio, proprio le donne hanno
dimostrato che il nemico, benché amato, non si trasforma in soggetto
amoroso. Quell’atto di compassione misericordiosa placa, sì, i
contrasti, ma nella dimensione del congelamento e non del mutamento
dei rapporti. Ragion per cui quella donazione femminile non libera né
può liberare le energie dell’amore autentico. Non a caso, terminata
la pausa dell’armistizio, rispuntano le stesse contraddizioni di
prima. Il prezzo pagato per la loro funzione di mediatrici sociali è
stato comunque altissimo. Non ultima l’esclusione, quasi totale, da
molti campi dell’esperienza e del sapere umano, dalla letteratura
alla scienza, dalla politica all’arte. Ma pur nel loro esilio
politico, le donne hanno avuto un’importante occasione storica:
quella di rigenerare il codice etico dell’umanità attraverso
l’educazione dei figli. Anche questa opportunità, però, è stata
in gran parte sciupata, poiché, nella stragrande maggioranza dei
casi, le madri hanno preferito avallare nei figli la cultura maschile, tanto nei
riguardi dei maschi che delle stesse femmine.
A partire dagli ultimi decenni,
l’intero quadro dei rapporti donna-uomo si presenta per tanti
aspetti cambiato.
Da quando c’è stata la svolta femminista sembra
anzi che la subalternità femminile appartenga a una tradizione da
tempo sepolta. A questo punto, va detto che il capitalismo
contemporaneo sta aiutando le donne a recitare nella società un ruolo
da protagoniste. L'Azienda, tra l’altro, si sta rivelando una vera e
propria palestra politica. Il mondo del lavoro ha per di più permesso
che tra uomini e donne si aprissero dei varchi di comunicazione
extra-sessuale, laddove nel passato, anche recente, ogni incontro era
contrassegnato da un interesse quasi esclusivamente erotico. Si
assiste perciò al formarsi di comportamenti femminili diversi: in
famiglia, quelli ancorati in buona misura alla logica storicizzata
delle donne, nell’azienda, quelli assimilati dalla logica
maschile. E questa tendenza emancipativa, pur presentando per le donne
seri problemi di snaturamento, va comunque giudicata positivamente. La
prima condizione del mutamento è infatti il mutamento stesso.
Sicché, solo quando la donna rinnegherà la sua arcaica tolleranza,
l’umanità potrà aprire altre strade, compresa quella
dell’Utopia.
Probabilmente, ma è soltanto una previsione, ci
saranno più femmine che maschi capaci di impegnarsi in un progetto di
trasformazione radicale della vita, proprio perché le donne sono meno
avvezze degli uomini alla pratica del sopruso. La classe operaia, al
contrario, pur essendo una classe oppressa, nella maggioranza dei casi
rimane pur sempre una classe maschile e quindi più incline alla
sopraffazione.
Ma un progetto che presuma di essere sufficientemente
utopico non può essere partorito solo da uomini o solo da donne.
Quanto prima, perciò, la questione maschile, intesa come
fenditura dentro l’eticità del maschio, dovrà essere messa
all’ordine del giorno. |
§ X.
Cristo
e le donne
I
l Dott. Cristo ha tratto l’asse
portante del suo punto di vista divino proprio dalla logica
storicizzata delle donne.
Quell’invito, apparentemente
rivoluzionario, a porgere l’altra guancia, non è stato forse tratto
pari pari dalla loro pratica quotidiana?
E come non vedere in questa
disponibilità femminile a tutto campo l’elemento neutro,
interclassista e senza diaframmi, dell’amore cristiano?
Nessuno,
comunque, prima di Lui, aveva mai attribuito al comportamento delle
donne un valore politico tale da ricavarne una logica e una
teoria sociale. Pur tuttavia il Dott. Cristo non ha mai parlato al
femminile. Al centro del suo progetto c’è anzi il maschio, quale
fulcro dell’autorappresentazione della specie. Con l’avvento del
cristianesimo, in ogni caso, anche se la società è rimasta a dominio
maschile, è invece divenuta femminile come proposta
etica e spirituale. Le donne, in altri termini, hanno avuto in Cristo
il portavoce maschile della loro logica. E con un’operazione di
potente sublimazione, simile a quella che capovolge la forza del
desiderio nella forma della rappresentazione, Egli ne ha ulteriormente
rafforzato il ruolo subalterno. Che la Chiesa abbia poi avviato il
processo di glorificazione di Maria fino ad attribuirle specifici
compiti di redenzione e a proclamarla "Mater Ecclesiae", non
implica affatto che abbia riconosciuto nella madre di Gesù il modello
comportamentale e la propria fonte ideologica. 'Divinizzarla' ha
significato solo trasformare una donna normale in una donna
straordinaria, così da ribadire l’etica della tolleranza a
partire proprio dall’indiscussa preminenza del maschio. Tutte le
volte, d’altro canto, che gli uomini hanno tentato di proporre, nel
sogno della poesia, il più alto modello di società dell’amore, han
sempre finito per porre le donne a punto di riferimento più
esemplare di quel sogno.
Mentre i poeti hanno tratto, di
regola, ispirazione dalla donna amata, Cristo ha assunto la
madre a modello. E la differenza non è marginale. L’amante è
infatti la donna desiderata tutta per sé, la ninfa nuda e senza
pudicizia; la madre, al contrario, è una figura oggettiva,
vestita di castità, incarnazione di un concetto quasi universale di
creazione e di dedizione.
E c’è anche un altro aspetto. Il Dr.
Cristo è trasmigrato nell’ottica femminile della madre non da
figlio ma da soggetto sociale, così da riuscire a inglobare, pur
rimanendo maschio, il punto di vista delle donne tanto in quanto madri
che in quanto mogli. Attraverso un processo di immedesimazione è,
quindi, riuscito a interpretare l’universo femminile, da nessuno mai
prima razionalizzato. Con l’idea della fratellanza universale,
Cristo ha però elaborato un’utopia idealistica, basata
sull’ingenua credenza che basti la forza dell’amore, come puro
atto di volontà, per realizzare un corretto sistema di rapporti
interumani. Ma una fratellanza che non preveda soggetti tutti autonomi
e positivi non è propriamente una fratellanza. È solo un falso amore, o
meglio una tregua nel conflitto di classe, che viene pagata, da parte
di chi accetta di vivere misericordiosamente, con il prezzo della
croce. E questa croce corrisponde esattamente all’espiazione cui
sono piegate quotidianamente le donne.
Ecco che adesso appare chiara
anche la ragione per cui il cristianesimo non ha messo in discussione
la schiavitù. In realtà non c’è stata alcuna svista. Le donne, in
quanto schiave dei maschi ma anche schiave d'amore,
sembravano dimostrare che, all’interno di quel modello
comportamentale, la schiavitù non impediva ‘l'amarsi l'un
l'altro’. Ma era stato proprio il vincolo della prigionia che aveva
determinato, nelle donne, la struttura logica della loro etica:
l’amore della beata sofferenza.
Ma perché Cristo ha mentito?
È ovvio che, se Gesù avesse
dichiarato di aver tratto dalle donne l’ispirazione della sua
teoria, il suo messaggio non avrebbe sortito l’effetto che ha poi
avuto nella storia. Solo una spiegazione del genere può giustificare
la sua omissione. Non si vuole, comunque, aprire qui nessun secondo
processo. Anzi, la divinizzazione della logica storicizzata delle
donne è forse servita (venti secoli fa) a rendere l’umanità un
po’ meno guerriera, poiché quelle favole su Dio e sugli uomini
hanno avuto una funzione educatrice di gran lunga superiore a ogni
altra forma o proposta di pensiero razionale. Ma il freno di quella
mediazione è divenuto oggi dannoso, oltre che infruttuoso, giacché
proprio l'unità degli opposti, proprio l'amare il nemico
impedisce che si liberino energie in direzione dell’amore autentico. |
§ XI.
Disimpegno
politico e impegno ideologico
N
ella storia vi sono date (come il
1492, il 1789, il 1917) che segnano importanti mutamenti. Anche il
’68 è una di queste, ma se ne discosta per aver prodotto solo una
lunga, magmatica e coinvolgente riflessione di massa.
In quel tempo, ogni teoria,
ogni ideologia, laica o religiosa che fosse, fu messa in discussione,
ogni questione riesaminata, con uno spessore e una partecipazione che
non trovano riscontro in nessun altro periodo della storia. Fu come se
quegli esploratori avessero provato a perlustrare nuovi territori,
portandosi dentro l’unica certezza di non voler tornare nel porto di
partenza. Il viaggio fu tuttavia senza approdo, dal momento che nessun
paese era in grado di offrire ospitalità alla loro domanda politica.
Sebbene quell’esperienza si sia chiusa, il suo riverbero tuttavia
non si è ancora spento. E non solo perché i segni di una così
particolare avventura sono indelebili, ma soprattutto perché
insoffocabile rimane l’anelito da cui aveva preso l’abbrivio.
Nel
’68 si cominciò a credere – con trasporto quasi religioso, sia
pure con mente assolutamente laica – all’esistenza di altre
dimensioni del vivere (non certo nascoste nel sottosuolo o nel cielo),
nelle quali i rapporti tra le persone potessero essere regolati con
meccanismi completamente differenti da quelli sino ad allora
sperimentati. Fu annullato il principio dell’intoccabilità e
superato il muro della metafisica, quel muro cioè che impedisce lo
sfondamento dei bisogni nella storia reale. E fu soppressa la distanza
che separa l’umanità dall’idea di Dio, per tentare di realizzare
la società dei felici.
Quell’evento, però, non ha prodotto la
deflagrazione di nessuna società. Il capitalismo ha avuto, anzi, la
capacità di far propri quei contenuti ‘rivoluzionari’ che non
mettessero in pericolo la divisione della società in classi e la
proprietà privata dei mezzi di produzione.
D’altro canto,
simultaneamente alla critica dell’esistente e all’esplosione di
nuovi bisogni, non era stato formulato alcun nuovo progetto. Certo,
non tutti i superstiti di quella esperienza sono oggi portatori di
ideali rivoluzionari, giacché parecchi han perduto la forza del
credere. E non solo perché si sono dovuti piegare alle necessità
contingenti, ma soprattutto perché, avendo cancellato la parte più
radicale di quei bisogni, sono approdati (nel meno peggiore dei casi)
a una visione riformista della società. Chi invece ha saputo
conservare integra quella domanda politica ha preferito vivere in
solitudine, piuttosto che rincorrere false chimere. Non ha senso,
tuttavia, cristallizzare la propria vita politica in
un’immagine-ricordo di quegli anni giovanili, se finalmente è
possibile passare il testimone alla nuova generazione.
Proprio perché alla concezione
dell’Utopia si contrappongono antichi vincoli etici, sedimentati
nelle profondità delle menti, solo una rivoluzione generazionale potrà
infatti favorire adesioni di massa a un progetto di così ampia
portata. Sarebbe, comunque, riduttivo pensare che gli unici soggetti
interessati al lavoro di ricerca sulla Società dell’Utopia
appartengano alla generazione del ’68.
Ma in che modo dovrebbe funzionare
questo nuovo tipo di impegno politico?
La figura del ricercatore di
Utopia è innanzitutto caratterizzata dal disimpegno nei riguardi
dell’attualità politica. E non tanto perché non esiste il vero
partito rivoluzionario, quanto perché è venuto meno il
‘nesso’ che prima legava la tattica alla strategia. Non si tratta,
quindi, di mettere in discussione la validità della quotidiana
battaglia di opposizione, ma di distinguere nettamente la sua funzione
difensiva (sostanzialmente sindacale) dal processo di costruzione
dell’Utopia.
C’è di più. Si deve abbandonare quel disegno
opportunistico che univa con convergenze strumentali classi
diverse o sbandierava il vincolo della ‘solidarietà di classe’
per poi tentare operazioni di trasformismo. Né l’idea del governo delle sinistre né quella di chi ha fatto del tritolo la
sua linea politica possono qui trovare il benché minimo avallo. È
ovvio che dopo l’abbandono della logica e della strategia marxiane,
e non essendoci alcuna montagna del Sinai su cui andare a leggere o
ascoltare altre tavole laiche, la scrittura dei Nuovi Testi avrà
funzione prioritaria in tutta la prima fase della nuova militanza.
Nulla infatti è più importante dell’inventare e dello scrivere il
Manifesto dell’Utopia: il solo che può proporre una nuova strategia
del cominciamento, senza la quale ogni atto politico sarebbe fine a se
stesso. Certo, è vero che il disimpegno dalla scena politica
contemporanea il più delle volte fa ristagnare la riflessione e
spegne l’interesse per le alternative all’esistente. Non ha senso,
tuttavia, attivare il volano del movimentismo solo per riattizzare il
fuoco dell’ideologia. Né è da sottovalutare il rischio di restare
intrappolati in un monastero della ricerca, con la conseguenza,
una volta usciti dalla clausura intellettuale, di ritrovarsi in un
mondo modificato a tal punto da non garantire nemmeno il minimo
livello di democrazia. Andranno perciò individuati obiettivi marginali,
avendo cura di ribadir sempre, con la massima chiarezza, che essi non
hanno alcun rapporto diretto con il Progetto dell’Utopia. Si possono
menzionare, a tale riguardo, il controllo internazionale delle nascite
(ma non della vita, come qualcuno fa finta di intendere), la
salvaguardia delle libertà democratiche (come quelle
di espressione e di associazione), la difesa sindacale nei rapporti di
lavoro (per non essere schiacciati dalla disparità economica), la
lotta all’inquinamento.
Probabilmente, per tutta la fase preliminare, la vita del militante
non potrà perciò non subire un vero e proprio sdoppiamento.
Tra l’attività diurna, fondata sul lavoro e quindi sullo scambio
della compravendita (delle cose come delle persone), e quella
notturna, dedicata al Progetto collettivo dell’Utopia. Chi pensasse,
al contrario, di unificare le due vite attraverso uno stesso
stile politico, non riuscirebbe a stare a galla di ‘giorno’ e
avrebbe quindi una minore energia progettuale da riservare alla notte.
Nulla dell’attuale essere tra gli
altri si può mai avvicinare, sia pure in termini approssimativi,
‘all'essere nell'Utopia’. E nulla può sanare questa
contraddizione. Chi, ingenuo, tenterà di rimarginarla, ne uscirà con
le ossa rotte. Non solo. Ma quand’anche il suo sforzo servisse a
qualcosa, contribuirebbe solo a mistificare i termini del problema. A
far credere, cioè, che tutto si possa risolvere con la buona
volontà individuale. |
§ XII.
La
separazione antropologica
L
a classe rivoluzionaria dell’Utopia
dovrà compiere un salto politico analogo a quello bio-evolutivo
compiuto dall’uomo quando si è staccato dalle altre specie animali.
Ma sulla base di quale ‘categoria’ si definiranno i nuovi soggetti
rivoluzionari?
Identificare la classe rivoluzionaria come classe
della mente è il modo forse più autentico per portare l’opzione
politica sullo stesso terreno in cui germoglia l’elaborazione della
domanda utopica. Ma definire «classe» l’aggregazione di chi
incarna i nuovi bisogni ha senso solo in considerazione della forza
d’urto che ancora questo termine conserva. È bene chiarire
subito che alla classe della mente non appartiene affatto la
categoria professionale degli intellettuali, che pensano in quanto pagati per pensare e la cui funzione sociale è inevitabilmente
subalterna ai centri di potere.
La nuova razionalità consiste invece
nel governo della sensibilità, che può appartenere a chiunque. La
qualità della scelta utopica risiede infatti proprio nella candida
dolcezza (tanto difficile da farsi). È la semplicità di
tale razionalità a permettere di accogliere nella classe della mente
anche i portatori di filosofia implicita, ma non quanti sono
gonfi di informazione e vuoti, invece, di tensione utopica. Non si
tratta tanto di rinunciare al sapere specializzato, quanto di scindere
le potenzialità della mente dal suo uso professionale.
Chiunque voglia schierarsi tra i
rivoluzionari dovrà prima di tutto sconfessare la classe di
appartenenza, perché solo ‘tradendo’ potrà staccarsi
definitivamente dal proprio ruolo storico nonché dagli aspetti
regressivi della propria tradizione. Nessuna cultura o modello di
classe (persino anticapitalistico) potrà quindi trasmigrare
integralmente nella Società dell’Utopia, poiché si correrebbe il
rischio di riportare il virus della vecchia logica dentro la nuova
Storia. Non si stilerà, tra l’altro, nessun elenco di iscritti al
popolo dei rivoluzionari per meriti acquisiti, giacché tale qualifica
si guadagna solo mediante l’adesione al Progetto dell’Utopia, come
atto di libera e consapevole scelta. Né si intende perseguire la
strada della separazione manichea tra presunti cattivi e presunti
buoni. Il codice etico oggi vigente è, infatti, anni luce lontano
dalla concezione utopica. Coloro che lo rispettano possono tutt’al
più aspirare a un mondo un po’ meno turpe, ma non certo aderire a
un progetto di palingenesi totale.
È quindi più corretto definire la
nuova classe rivoluzionaria come un blocco sociale nascosto,
nel senso che verrà alla luce solo quando sarà concepita la linea
politica che ne accoglierà la domanda. È un po’ come la storia
della bussola. I Romani e i Greci, pur avendo intuito la proprietà
magnetica della calamita, non capirono infatti che l’ago indicava
sempre la stessa direzione. Saranno perciò i punti cardinali
dell’Utopia a calamitare i rivoluzionari potenziali. Gli individui
si staccheranno dalle famiglie e dalle classi di origine, per unirsi
in una nuova aggregazione antropologicamente omogenea (ma non certo
monolitica), che si qualificherà come una vera e propria nuova razza.
L’uso di questo termine non deve però essere frainteso. Serve solo
a chiarire emblematicamente la portata e il valore della rottura che
si vuole proporre. La ‘superiorità’ e la ‘purezza’ della
razza utopica non sottintendono minimamente l’idea di predominio. La
separazione della specie umana nasce esclusivamente dalla
consapevolezza che solo una distanza etica ed estetica può
innescare la prima fase esecutiva del Progetto. È perciò un atto
politicamente dovuto, anche se una riomogeneizzazione del
genere umano è da auspicarsi. Quando e se matureranno le condizioni.
Se si identifica peraltro l’Utopia
con la Società dell’Amore, non si può certo immaginare che tutti
ne possano far parte, poiché non tutti sono sintonizzati su questa
frequenza etica e politica. La proposta di selezione razziale si
rende quindi necessaria per scindere gli elementi potenzialmente
armonici da quelli totalmente disarmonici. Ed è chiaro che quando si
parla di armonia si vuole intendere la disponibilità all’armonia,
dato che sarebbe assurdo pretendere, qui e ora, l’abolizione
dell’invidia, della gelosia o di altri sentimenti negativi, radicati
da millenni nelle menti degli individui.
Del resto, anche alcune religioni,
compresa quella cristiana, hanno adottato il criterio della divisione.
Dal paradiso non sono forse esclusi tutti quelli che non ne sono
ritenuti degni? Il Dio cristiano, nel suo infinito amore,
compie in sostanza un vero e proprio atto di separazione postuma,
ancorando per di più un destino infinito a un’esperienza di vita
finita. Non si comprende, d’altra parte, per quale motivo si debba
continuare a spendere la propria esistenza nella frustrazione della
mediazione, se c’è la possibilità reale di iniziare a costruire un
mondo di rapporti felici.
L’unità a tutti i costi esprime,
difatti, quella condiscendenza alla mediocrità tipica degli individui
irrisolti e speranzosi. Cosicché l’Eden si configura come il
rovesciamento simbolico dell’incapacità di essere. |
§ XIII.
La
scissione territoriale
I
l problema della transizione
ha avuto, nella tradizione marxista, una notevole centralità
tematica. Il Progetto dell’Utopia prevede invece l’elaborazione di
una strategia che approdi direttamente a una società compiuta. In
questo senso lo spazio territoriale si pone come una delle
pre-condizioni essenziali per la sua realizzazione. La geografia
politica del Pianeta dovrà, quindi, subire un mutamento epocale, in
termini di divisione internazionale tra modelli sociali. Così che,
separatamente dalla società di mercato, l’Utopia possa realizzare
il suo giardino delle delizie. Può sembrare anacronistico
rialzare proprio adesso dei muri. Tuttavia quello di Berlino,
tanto per fare l’esempio più emblematico, non separava che due
società sostanzialmente omogenee. È vero che quelle società
differivano per un minore o maggiore statalismo, una maggiore o minore
ricchezza, una maggiore o minore libertà, ma è altrettanto vero che
si reggevano entrambe sulla compravendita, sulla famiglia nucleare a
dominio maschile, sulla divisione in classi, oltre che per sesso e
potere. La scissione produrrà, comunque, sia un nuovo
internazionalismo fondato sulla unicità territoriale sia il
superamento dei classici (e asfittici) schemi della transizione
nazionale.
Nell’imbuto della politica statuale,
qualsiasi progetto di qualità è infatti bloccato, più ancora che
dalla maggioranza numerica, dal vincolo unitario che lega tutta la
popolazione. Ma quando si sarà unificato in «un'etnia
inter-etnica», l’insieme della ‘popolazione internazionale
dell’Utopia’ acquisirà il diritto politico di appropriarsi dello
spazio che gli è indispensabile.
La rivendicazione territoriale sarà
comunque solo qualitativa. Nel senso che non si tenterà di far
rinascere nessuna nazione del passato, né, animati da spirito
messianico, si cercherà di far ritorno in qualche terra promessa. Si
tratterà di una semplice occupazione politica, senza alcun titolo di
legittimità giuridica, ma anche senza avocarsi il diritto di
sottomettere altri popoli.
È evidente, tuttavia, che non sarà
sufficiente spiegare alla gente che l’Utopia rappresenta la migliore
delle società possibili perché le venga riconosciuta la sovranità
su una parte della terra. Si faccia avanti, dunque, chi abbia da
proporre delle soluzioni che consentano di approdare pacificamente
alla Nuova Era. |
§ XIV.
La società della domanda
S
e si pensa a una società senza la
compravendita, ci si trova di fronte a un vuoto assoluto. E non solo
perché la storia finora non ha mostrato che società fondate sullo
scambio, ma anche perché, nonostante le intuizioni di Marx abbiano
"diffuso chiara luce solare sul campo dell’economia", le
successive ricerche non hanno prodotto alcuna idea valida per una
società che funzioni senza la moneta e al tempo stesso valorizzi al
massimo la domanda individuale. Alcune comunità cristiane, sulla base
della condizione di privilegio accordata alla povertà, hanno
praticato sì il distacco dalla ricchezza, ma non abolito il
denaro. La trovata dell’elemosina-donazione non ha insomma alcuna
portata alternativa e globale, in quanto quel tipo di comunità ha
comunque bisogno di una seconda società da cui attingere. E
anche qui, per inciso, si trova rispecchiata la logica storicizzata
delle donne: con un maschio (simboleggiato dalla società finanziaria)
che elargisce le risorse per la gestione dell’economia domestica e
una comunità (madri e figli) che ne fruisce. A questo punto è
d’obbligo, prima di entrare nel merito del Progetto, precisare che
la scommessa dell’Utopia risulterà vincente solo se si riuscirà a
inventare un circuito economico capace di soddisfare la domanda di
ciascuno in ‘misura superiore non solo rispetto a quanto consenta
il sistema capitalistico, ma anche a quanto la borghesia sia in grado
di desiderare per se stessa.
Che i soldi possano essere aboliti non
è una follia. E lo si può dimostrare partendo dalla considerazione
che la moneta, sia essa palpabile o astratta, non sta dentro la
sostanza della merce né dentro l’energia del lavoro. Il danaro,
quindi, è sì la fonte energetica che muove la produzione, ma in
realtà ciò che simboleggia è solo un tipo di organizzazione
mentale.
La scomparsa della moneta come mezzo e valore finanziario non
vuol dire tuttavia che si butteranno a mare le scienze del lavoro e
della produzione. Nel senso che, pur venendo meno la figura
dell’imprenditore, non verranno perdute né l’intraprendenza né
la managerialità. Che però non saranno legate al bisogno di
dominare, bensì a quello di realizzarsi. E sarà proprio questa sana
finalità il propellente che spingerà ognuno verso il massimo
dell’impegno.
L’Utopia può essere anche definita
come la Società della Domanda, proprio perché dalla domanda, e non
dall’offerta, ha realmente inizio il processo produttivo.
Un’offerta che non trova corrispondenza nella domanda finisce
difatti per azzerarsi. Mentre una domanda rimane, in assenza di
offerta, solo temporaneamente congelata, senza per questo annullarsi.
Il mercato, d’altronde, come area di confluenza di offerta e
domanda, ha motivo di esserci solo fino a quando non si realizza
la coincidenza tra i due termini. La centralità della domanda non
costituisce, comunque, una novità esclusiva dell’Utopia. Basta
ricordare l’economia feudale o, in riferimento al capitalismo,
l’istituto dell’appalto. L’appalto delle opere pubbliche,
difatti, parte proprio dalla domanda, poiché la commessa del lavoro,
sia in tempo di guerra che di pace, è assicurata dallo Stato.
È
ovvio che quando si parla di domanda come ‘input’ alla creazione
del prodotto, si può correre il rischio di evocare lo spettro della pianificazione,
che ha rappresentato il filo conduttore della società sovietica. Ma
dovrebbe essere superfluo ribadire che non c’è alcuna somiglianza,
neanche lontana, tra la Società della Domanda e quel sistema
economico, che programmava e pianificava la dittatura sui
bisogni, comprimendoli fino al punto di identificarli con le
necessità minime.
Per cominciare a dare una prima
immagine della libera acquisizione dei beni, si può pensare a un
frigorifero da cui ognuno attinga liberamente a seconda del proprio
appetito, senza nulla pagare e senza neanche dover bilanciare i propri
bisogni con quelli di altri fruitori. Ma se ogni merce ha un tempo di
produzione diverso, com’è possibile toglierle forza di gravità
economica, eliminare cioè il valore di scambio?
A questa domanda
sarebbe impossibile rispondere se si partisse dagli elementi che
determinano il conto economico della singola merce. Per annullare la differenza di valore, si deve invece partire dalla globalità,
cioè da tutta la merce prodotta e dividerla per la somma di tutta la
domanda.
Le merci avranno uno stesso valore solo quando, realizzatisi
tutti i beni cui aspirava la domanda, la divisione darà come
risultato 1.
Nell’Utopia, allora, la somma di
tutto il lavoro dovrà soddisfare in pieno la domanda dell’intero
corpo sociale. Per cui, se tutti potranno avere tutto,
il denaro non avrà più ragione di esistere.
Va detto comunque che il
poter avere tutto non coincide col possedere materialmente tutto, ma con il
sapere di poter avere ciò che si desidera, nelle condizioni,
beninteso, dello sviluppo compatibile. Ma mentre nel passato il
«poter avere tutto» apparteneva al regno dell’impossibile, oggi
è dentro le potenzialità dello stesso capitalismo. Che, però,
nonostante sembri voler soddisfare una larghissima domanda, ha il
limite intrinseco di essere condizionato da un lato dalla differente capacità di acquisto dei vari individui e
dall’altro dalla differente capacità di produrre profitto di
ciascuna merce. E ciò è vero non solo per i beni che sono stati già
prodotti, ma ancor più per quelli non ancora realizzati. Se difatti a
una serie di bisogni, pur presenti come domanda, non corrisponde
un’offerta sul mercato, è perché mancano le condizioni
economiche atte a determinarla. Oggi, d’altro canto, la distanza
che separa l’offerta dalla domanda si è accorciata di molto, grazie
anche ai nuovi sistemi di indagine-controllo del mercato. L’offerta,
in altri termini, è come misurata a vista.
L’assottigliamento del margine tra offerta e domanda non dà luogo
però, neanche approssimativamente, alla Società della Domanda, ma
produce solo una migliore programmazione dell’offerta, che adegua,
in tempo reale, la produzione sulla linea degli indici di vendita.
In
che modo allora sarà possibile costruire case e mezzi di trasporto,
produrre il cibo e quanto altro abbisogni, se si eliminerà il costo di
produzione e quindi il denaro?
C’è da dire, intanto, che già
esiste, nell’attuale sistema economico, un processo di
‘socializzazione’ che non viene mediato dal mercato. Dentro ogni
azienda, grande o piccola che sia, nessun ufficio o reparto paga
infatti il servizio o la merce che riceve da altre unità produttive
interne. Ciò tuttavia non implica che qualora fosse possibile
realizzare l’Azienda Capitalistica Globale si passerebbe
automaticamente alla Società della Domanda.
Ma nella Società dell’Utopia, come
potrà organizzarsi, tanto per fare un esempio, la produzione
dell’abbigliamento?
Intanto, la richiesta si formerà nei laboratori di creatività. Dove, sulla base delle indicazioni
dell’utente, lo stilista disegnerà il modello, che sarà frutto
dell’intreccio complementare tra domanda e capacità ideative.
L’industria entrerà in gioco in un secondo momento. Quando gli
ordinativi trasmessi dal laboratorio di progettazione si dovranno
trasformare in merce. Ciò non vuol dire che la lavorazione si attiverà
soltanto dopo la formulazione della domanda o con la lentezza tipica
del metodo artigianale: il processo industriale integrato e
automatizzato permette d’altronde, già oggi, non solo di fabbricare
velocemente ma anche di individualizzare i prodotti a misura di ogni
utente. L’idea del vestito andrà così in macchina come la stampa
di un giornale, e il modello esclusivo tornerà al committente sotto
forma di valore d’uso. La distribuzione quindi non sarà più
identificabile con la vendita. La merce sarà semplicemente
consegnata. Dopodiché diverrà di proprietà di chi l’ha
richiesta. Poiché l’Utopia, proponendosi l’esaltazione
dell’individuo, non può non sviluppare al massimo la ricchezza di
ogni mondo privato. I negozi odierni saranno quindi aboliti e le
vetrine adibite a rassegna permanente di tutto ciò che è stato
realizzato. Mentre la pubblicità non servirà a promuovere le
vendite, bensì a produrre l’affinamento del gusto. Nonché a
suscitare desideri vivificanti e non consumistici. Sarà pertanto
istituito un vero e proprio osservatorio della domanda, cioè un
centro di ricerca capace di leggerne la tendenza al fine di
ottimizzare la produzione, anche in termini di risposta anticipata ai
bisogni.
Si deve, comunque, aggiungere ancora
qualcosa sul momento della produzione. Nella società di mercato la
grande fabbrica, prima ancora di essere il luogo dove si realizza la
merce, è anche la sede dell’Ufficio Studi & Progetti, che ha la
funzione di pensare, decidere e ideare i nuovi prodotti. Nella Società
dell’Utopia, come si è visto, la sede della progettazione sarà del
tutto autonoma dall’industria, che manterrà solo la funzione
tecnica e professionale, mentre verrà deprivata del potere, poiché
la scelta politica sarà dislocata tutta nel momento della domanda. La
fabbrica, garantendo la massima flessibilità produttiva, sarà così
veramente al servizio del corpo sociale. E dentro questo nuovo ordine,
lo stesso Stato si dissolverà.
Ora, la riscrittura di tutte le
funzioni sociali prevede anche una diversa attribuzione delle mansioni
lavorative, che diverranno più complesse col crescere dell’età:
una scala mobile dei lavori che avanzi lungo la scala mobile dell’età.
Così che tutti potranno affrontare, in maniera stimolante, i vari
mondi del lavoro e nessuno si sentirà più privilegiato o emarginato.
D’altro canto questo tipo di organizzazione servirà anche a
impedire che, sotto mentite spoglie, si possa riprodurre la divisione
in classi della società. La scomparsa della contrapposizione tra
titolari di mezzi di produzione e salariati non basta infatti a
impedire il permanere di altre discriminazioni: tra lavoro
intellettuale e manuale, tra lavoro semplice e complesso, tra funzione
direttiva ed esecutiva. Altro problema è poi quello della garanzia.
Quando oggi avviene la chiusura di un’azienda, si assiste
naturalmente alla perdita del salario, oltre che del profitto. Questo
dramma, nella Società dell’Utopia, non si ripeterà. Dagli attuali binomi economici
(... occupazione-salario, salario-acquisti,
acquisti-vendite...) si passerà, nell’Utopia, a un trinomio
indipendente (domanda-lavoro-prodotto), per cui, man mano che il
progresso tecnologico richiederà una minore presenza umana, la
riduzione generalizzata del tempo di lavoro non comporterà alcuna
forma di povertà, ma solo una maggior quantità di tempo libero. Ciò
significa che, quando si arriverà all’appuntamento che conclude
l’Età del Lavoro, non verrà meno la sicurezza che tutti possano
continuare ad avere tutto.
Il capitalismo, in realtà, non potendo
dare certezze (di salario, di pensione, ma neanche di profitto), ha
manipolato e strumentalizzato il concetto di ‘garanzia’ ponendolo
in simbiosi con quello di assistenza. È ovvio, però, che la
mancanza di sicurezza è connaturata alla società di mercato, che di
fatto non può permettersi di tutelare nessuno, borghesi
compresi.
L’Utopia, viceversa, è un sistema costruito sulla garanzia.
Che non è affatto l’edizione riveduta e corretta del sussidio, bensì
la certezza, per tutti, di aver diritto alla più alta qualità della
vita. |
§ XV.
Le
coordinate spirituali dell’Utopia
L’
opzione spirituale dell’Utopia
si distanzia radicalmente dalla proposta cristiana, che non ha
consentito di realizzare autentici rapporti di reciprocità. Non
potendo divenire il fine di se stesso, l’amore era così
divenuto il ‘mezzo’ per effettuare una sintesi della onnipresente
contraddizione. E questa funzione subordinata ha inciso in maniera
determinante sul suo contenuto, poiché non solo gli è stato impedito
di uscire dal cerchio infernale del dolore, ma anche di volare oltre i
confini del piacere. La responsabilità di aver bloccato il salto in
una nuova dimensione va quindi in larga misura addebitata proprio a
quel falso amore che, configurandosi come l’unica forza capace di
contrastare il male, ha eclissato il bisogno di cambiare il modello di
società. Ma se l’amore, nella proposta cristiana, si è risolto in
compassione misericordiosa, l’ideologia comunista lo ha invece
completamente rimosso. E quel colossale errore politico è
scaturito dal non aver compreso che l’esistenza è fatta di materia
ed energia, per cui l’elemento spirituale è parte integrante della
vita materiale. Dunque, lì dove, come nel cristianesimo, l’amore
c’è stato, è stato funzione dipendente dalla contraddizione; lì
dove (come nel comunismo) avrebbe potuto essere finalmente libero e
gioioso, è stato rifiutato. È proprio tanto complicata e
incomprensibile, a volte, la storia umana!
L’amore è il vero protagonista
politico della Società dell’Utopia. Ma può esserlo veramente solo
a partire da un bilaterale e appassionato piacere, che renda
‘conveniente’ lo slancio amoroso, in modo che l’addizione di
tanti legami faccia crescere la somma del godimento comune. Il
concetto utopico di altruismo collettivo si configura infatti
come l’intreccio gioioso dei benefici individuali procurati dalla
congiura dell’amore. Ribaltando così la mitica figura del santo,
che ha invece bisogno dello scenario della violenza o della
tribolazione per potersi santificare. Si tratta, in altri termini, di
trasfigurare tanto l’altruismo, liberandolo dal significato di
donazione gratuita e non corrisposta, quanto l’egoismo, eliminandone
l’aspetto di bieca appropriazione privatistica, incurante del
piacere dell’altro. Le coordinate in cui si inseriranno i contenuti
nuovi e imprevedibili dell’Utopia saranno perciò la percezione
acuta dei propri bisogni e la consapevolezza che la condizione per
soddisfarli è un mondo in cui tutti li soddisfino pienamente. Così
che l’ebbrezza del piacere scateni la giostra dei sentimenti e
l’orgia della gioia istighi l’irrefrenabilità dei desideri.
Non basta, comunque, cambiare il
meccanismo tecnico della società perché, quasi per incanto, tutte le
donne e tutti gli uomini vivano tra loro in spiritualità amorosa.
Il
capitalismo, tra l’altro, potrebbe in futuro assumere forme simili
alla società dell’Utopia. La qualità dell’amore sarà, allora,
l’unico criterio che consentirà di coglierne la diversità. È
tuttavia sempre possibile, anche nella Società dell’Utopia,
l’insorgere di qualche contrasto. Cosa succederebbe allora se,
manifestatosi un caso di disonestà, si fosse costretti a prendere
atto, dopo un serio tentativo di recupero, della definitiva
degenerazione di un individuo?
Non essendoci più né la detenzione né
altre misure restrittive, l’unico provvedimento possibile
consisterebbe nell’espulsione del soggetto cancerogeno. E praticare
il Foglio di Via si renderà allora necessario soprattutto per
salvaguardare coloro che abiteranno le terre utopiche. Poiché
l’assenza di amore non può certo convivere con la saggezza e con la
felicità. Che questi malati incurabili vadano a vivere con gli altri
malati e che l’Utopia accolga solo gli esaltati fanatici
dell’amore! |
§ XVI.
La
mobilità della coppia
P
er impostare in termini nuovi le
relazioni di coppia, c’è bisogno di scomporre l’amore in spicchi
indipendenti e poi disporli a cerchio, da quello solo fisico a
quello solo mentale. Ciò implica che ogni qual volta venga
soddisfatta, nella consensualità, la condizione del piacere
positivo, ogni spicchio possa essere assunto come una cellula dell’amore, autonoma e definita nella sua interezza. E che, venendo
meno l’immobilità dei rapporti, si aprano le porte alla mobilità
della coppia. Da non considerare come un mero passaggio
dalla fedeltà alla lealtà, bensì come possibilità codificata che
si sviluppino tante e proficue storie d’amore, così che ciascuno
possa stancarsi di godimento. In tal modo la mobilità si caratterizzerà
come una sorta di concorrenzialità romantica che muoverà
ciascuno alla ricerca della massima passionalità.
Il rivale,
difatti, piuttosto che essere considerato un antagonista, andrà
contemplato come figura umana più elevata da emulare. Tra l’altro,
questa corsa all’effervescenza vitalistica dell’amore dovrebbe
determinare tanto una crescita delle proprie capacità amorose quanto
un rafforzamento del legame con le stesse persone amate.
È ovvio che
oggi un discorso del genere non solo è impossibile da praticare, ma a
volte anche scomodo da accettare. Soprattutto da parte dei 'patrioti'
della famiglia, o di chi vuole immobili le donne e mobili gli uomini.
Ma la frontiera antropologica dell’Utopia può essere forse
rappresentata meglio dalla mitica figura dell’androgino, cioè dal
potenziamento, tanto nel maschio quanto nella donna, di sensibilità e
razionalità, di accoglienza e progettualità. Senza, però, che siano
depotenziati nell’uomo la prorompenza apollinea della virilità e
nella donna il fascino allusivo e misterioso della femminilità.
Nella
Società dell’Utopia, quindi, si dovrà realizzare il passaggio
dalla sacralità del matrimonio alla sacralità dell'amore.
Capovolgendo l’ottica dei comandamenti cristiani, che considera
alcuni ‘atti d’amore’ come dei veri e propri ‘reati
d’amore’. Si pensi, ad esempio, al settimo comandamento, che vieta
di "desiderare la donna d'altri". Il divieto ha senso,
infatti, soltanto in una società in cui le donne sono ritenute proprietà privata dei maschi, oltre che creature
prive di
desiderio. Chi si appropria della donna di un altro mette
quindi a repentaglio il patto di salvaguardia tra i maschi, che pone
il veto sul libero desiderio dell’amore. D’altro canto,
l’attuale liberalizzazione della tentazione dell'amore è una
falsa soluzione, non solo perché non scalfisce minimamente il
principio della proprietà privata delle persone, ma anche perché
spesso non fa che sostituire la relazione monogamica con una
molteplicità di rapporti inautentici.
Ma come si può armonizzare la mobilità
amorosa con l’esigenza di garantire un profondo rapporto affettivo
tra genitori e figli?
Questa domanda, come tante altre, resta, per il
momento, senza risposta. È certo, comunque, che si debba escludere la
separazione tra genitori e figli, poiché il diaframma tra sacralità
della famiglia e sacralità dell’amore non sta nella
differenza tra una famiglia a proprietà privata e una
fantomatica famiglia a proprietà pubblica, bensì in un
meccanismo che garantisca un legame libero e affettuoso tra i suoi
componenti. E neanche si può proporre una gestione collettiva
dei figli, poiché la solidità psicologica dei bambini si costruisce
soprattutto attraverso un rapporto individualizzato, che passa anche
per i vari gradi dell’accudimento. Occorre però disintegrare quel
rapporto di trasmissione che vede i figli crescere e formarsi come
fotocopie culturali dei genitori.
L’attuale richiesta di
professionalità sembra infatti risparmiare soltanto il mestiere di
genitori, spesso ancorato a cognizioni tradizionali. E la ragione di
questo strano arcaismo risiede, forse, nella paura che una pedagogia
su basi scientifiche possa far saltare quella catena di congiunzioni
culturali che favorisce il perpetuarsi della società di classe. Il
problema della formazione va affrontato, perciò, anche nella sua
specificità professionale e in un suo ambito autonomo. Parlare di
scienza dell’educazione è comunque difficilissimo, specie se la si
intende come lo strumento per eccellenza della grande politica. Tanto
per cominciare, la psicoanalisi e la psicopedagogia dovranno
scomparire, quanto meno come approcci correttivi.
Nell’Utopia, invece, sarà proposto
al bambino un codice positivo: un modello che gli indichi cosa
e come fare e non cosa è vietato fare. Un codice
imperniato su un concetto di sacro che divinizzi la pienezza
della vita.
Questo non significa che non ci saranno più devianze
comportamentali, ma che si potrà intervenire non appena si verificherà
uno slittamento fuori dal tracciato. E ciò consentirà di sanare
l’errore prima che diventi ferita o turba caratteriale. Giacché
l’errore che si supera subito è un errore che non lascia tracce. |
§ XVII.
L’infrastruttura
immobiliare
N
ello spazio territoriale
dell’Utopia tutto il vecchio edificato dovrà essere demolito. E non
solo perché inadeguato alle nuove configurazioni che assumerà la
vita sociale, ma anche perché l’eventuale adattamento alle
strutture architettoniche preesistenti finirebbe per impedire al
modello utopico di esprimere con pienezza la sua forza seduttiva. Si
immagini, dunque, la nuova sede abitativa come una sorta di residence a dieci stelle. Non si pensi, però, alle forme, ai
volumi e ai colori degli attuali involucri immobiliari, né si pensi a
una mera trasposizione dei villaggi turistici in un contesto urbano,
poiché in tali complessi i ruoli familiari, pur venendo meno la
coazione del lavoro, restano sostanzialmente immutati. Nel residence utopico, invece, la figura della casalinga scomparirà
e l’amministrazione domestica sarà gestita da aziende di servizi.
L’ambiente-cucina verrà quindi adibito a officina del vitto solo
quando se ne avrà piacere. Mentre abitualmente la festosa
cerimonia del cibo avrà luogo in raffinati ambienti, dove la
varietà e l’alta qualità delle pietanze si coniugherà con
un’atmosfera raccolta e rigenerante, simile a quella che si respira
all’interno di un chiostro. Dalla dimensione intimistica del pranzo
familiare si passerà così a una gioiosa ritualità sociale.
Naturalmente anche gli altri ambienti saranno ridisegnati. La camera
da letto è oggi destinata, ad esempio, tanto alla funzione biologica
del sonno-riposo quanto a quella edonistica dell’amore. Si potranno
invece creare, per le due funzioni, due spazi diversamente
organizzati. La ‘sala dell'amore’ sarà così un ambiente
predisposto al soddisfacimento dell’erotismo. In modo che la
separazione tra il dormire e l’amare, tra la staticità orizzontale
del riposo e la multiformità del rapporto sessuale arricchisca, per
quote di valore aggiunto, ogni specifica espressione dell’amore.
I complessi immobiliari saranno
dimensionati in modo da non ostacolare né la fluidità né
l’efficienza dell’intera organizzazione. Si eviterà perciò di
costituire comunità circoscritte (in piccoli aggregati) o masse
anonime (in casermoni). La Città dell’Utopia non tollera infatti di
essere parcellizzata in isole comunitarie. Ogni suddivisione in gruppi
chiusi finirebbe infatti per arrugginire la qualità dei rapporti,
poiché innescherebbe inevitabilmente dei meccanismi di interazione
tanto rigidi e ripetitivi da apparire immodificabili. Né si vuole
riesumare il concetto di casa comune, poiché la
socializzazione è intesa qui non come comunanza forzata bensì
come struttura di servizio e dimensione spirituale.
Ma la vera ‘casa’ dell’individuo
utopico sarà lo spazio sociale della Città, che assomiglierà a un
policentro aperto ventiquattrore su ventiquattro.
Forse questo
scenario può addirittura suggerire la maniera più genuina per uscire
dalla emotività catodica della televisione ed entrare, invece, in una
sensibilità calda, intensa e diretta. Lo zapping consisterà allora
nell’attraversamento dei diversi luoghi cittadini, per partecipare
da artefici e da commensali al sacro banchetto della creatività. È
in quegli spazi che si realizzerà la vera ricchezza del bisogno
sociale, poiché nel tempo libero, e non più in quello del
lavoro, gli individui troveranno la pienezza del proprio essere.
Va previsto poi, nella nuova
architettura alberghiera, anche un diverso spazio per i figli, che si
emanciperanno dal vincolo privatistico della famiglia e si
rapporteranno ai genitori attraverso un articolato sistema di
appuntamenti sociali. Verrà perciò edificata per i bambini una vera
e propria città della gioia, dove il gioco sarà praticato come
conoscenza e la conoscenza come gioco. E dove potranno nascere e
fiorire le prime amicizie, in una circolarità di rapporti che favorirà
la mutazione antropologica nel segno dell’amore non esclusivo.
Nelle Città dell’Utopia anche
l’uso dell’automobile potrà essere eliminato. Se non altro perché,
nell’ambito di un territorio circoscritto, è possibile adottare un
diverso sistema di movimentazione-trasferimento che abolisca tanto il
problema del parcheggio quanto quello dell’inquinamento. Tale
sistema funzionerà a energia elettrica e unirà tutti i punti della
città, così da personalizzare i tragitti e insieme azzerare i tempi
di attesa. Ogni veicolo, infatti, girerà automaticamente e
continuamente (anche quando non ci sono passeggeri) lungo il circuito,
alla ricerca di nuove prenotazioni, o, in alternativa, si attesterà
nelle aree di sosta più vicine all’ondata della domanda prevista o
richiesta.
Il compito di forgiare i nuovi
involucri immobiliari non potrà essere assunto dai soli architetti
organici, in quanto anche il problema dello stile è essenzialmente
politico e come tale non è esclusivo di alcun ruolo professionale.
Non a caso la maestosità e l'imponenza delle opere architettoniche
antiche, sacre o profane che fossero, nasceva dalla capacità di
alcuni esponenti delle passate classi dominanti di coniugare un gusto
raffinato a una volontà smisurata di rappresentare la propria potenza. Si dovrà quindi
tornare a operare in quell’ordine di grandezza, inventando però una
fastosità che abbia la capacità di avvolgere e non di dominare. E
che riesca a superare la forma e il contenuto dell’arte monumentale,
abolendo ogni spigolosità e utilizzando unicamente la curva del
concavo per racchiudere lo spazio e la curva del convesso per
penetrarlo. Quest’arte avvolgente, nello sfarzo degli ornamenti e
dei colori, dovrà manifestarsi in ogni aspetto del reale,
dall’oggetto più complesso a quello più banale, così che tutto
l’ambiente diventi un vero ‘giardino delle delizie.
Dovrebbe essere superfluo aggiungere
che i previsti piani di demolizione non riguarderanno né l’arte
delle epoche precedenti (compresa la grande architettura) né
l’archeologia.
Custodirle e averne cura sarà anzi uno dei compiti
più altamente religiosi delle generazioni utopiane. Ma la
frequentazione del passato avrà pure la valenza vitalistica
della sfida. Poiché l’arte dell’Utopia dovrà trovare una
dimensione che trascenda anche le più raffinate sublimazioni del
dramma. |
§ XVIII.
Sulla
democrazia Utopica
L
a storia recente sembra aver codificato
che senza il Parlamento non può esservi esercizio della sovranità
popolare e che senza i Partiti non può esservi libertà politica,
bensì solo totalitarismo, di destra o di sinistra che sia. Per
fortuna le
‘leggi’ della storia non possono impedire di concepire una forma di democrazia più avanzata di quella borghese,
tale che sia in grado di abolire qualsiasi tipo di delega.
Il vero 'obiettivo' è quindi
riuscire a progettare un meccanismo grazie al quale tutti,
quotidianamente, possano proporre, discutere, scegliere e votare, in
modo che sia l’intera popolazione a costituire il parlamento.
Evitando però di scadere in un assemblearismo inconcludente, tale da
far preferire, sotto l’aspetto della funzionalità, il più
‘ordinato’ sistema della delega.
Occorrerà allora strutturare il
sistema operativo di tale meccanismo in modo da renderlo un efficiente
strumento di partecipazione, evitando tuttavia che la gestione di tale
organizzazione diventi, sotto mentite spoglie, un centro di potere
politico. Tra gli strumenti del confronto, la televisione, e in
particolare l’uso del multi-quadro, potrà avere una funzione
importante. Ogni casa dovrà quindi possedere la stanza del Parlamento, che si avvarrà di circuiti paralleli interattivi.
La società di mercato, in una fase più
evoluta e con una più robusta cultura interclassista, potrebbe
benissimo aderire al sistema della teledemocrazia, sostituendo con le
maggioranze di massa le maggioranze parlamentari di oggi. Ma la classe
dominante ha tuttora interesse a lasciare la gestione della più
grossa azienda nazionale, cioè il Bilancio dello Stato, nelle mani di
un personale ben navigato nell’arte della manipolazione del
consenso.
L’aspetto rivoluzionario della
democrazia utopica non consiste perciò nell’innovazione tecnica
(nel telecomando del voto), bensì nell’attribuire a ogni individuo
il potere di decidere su tutto. La democrazia elettronica
rappresenterà però solo uno dei passaggi della democrazia diretta,
poiché il vero confronto politico dovrà partire sempre dal marciapiede.
È previsto, in aggiunta, un pullulare di salotti ideologici,
che rappresenteranno la più importante struttura di elaborazione
delle idee. E in quelle sedi si svilupperà una dialettica non più
legata alla gestione degli affari e quindi non più costretta a
ricorrere agli inganni che oggi servono a travestire con i sofismi
della politica la nuda verità dei rapporti di forza. Nella Società
dell’Utopia il dibattito sarà così ampio e trasparente da
oscillare incessantemente in tutte le direzioni. Non potrà
quindi neanche lontanamente paragonarsi al ‘monolitismo’ di un
partito né al mero pluripartitismo. E come le attuali forze politiche
son tutte dentro l’ideologia del Mercato, così la libertà e il
pluralismo dell’Utopia non sono concepibili se non dentro la Società
della Domanda, dentro la socializzazione dei mezzi di produzione,
dentro la discordante armonia della nuova spiritualità dell’amore.
Nella fase di transizione alla Nuova
Società sarà comunque necessario costituire il Partito
dell’Utopia, poiché senza il suo alveo la fiumana della rivoluzione
rischierebbe di disperdersi e di non sfociare mai nel mare della Storia. Dopo di che ne
è previsto l’automatico scioglimento.
Vanno chiarite però, a tale
riguardo, un paio di cose. Prima di tutto, che la fase della
transizione è contemplata soltanto all’interno dell’attuale
società. In secondo luogo, che per il Partito dell’Utopia occorre
inventare di sana pianta (poiché forma e strategia politica non sono
scindibili) una struttura inedita che, tra l’altro, renda obsoleto
il problema del rapporto avanguardia-masse. Lo stile del nuovo
Partito, che sarà formato probabilmente da tutti segretari,
potrà così prefigurarsi come una prima prova d’orchestra della
futura democrazia. Anche se la storia della transizione sarà
ovviamente profondamente diversa dalla Storia dell’Utopia.
Pubblicamente e alla luce del giorno, quando i tempi saranno maturi,
si deciderà allora anche la data e l’ora in cui i nuovi attori
sociali daranno inizio al nuovo spettacolo della Storia. |
§ XIX.
Per
la biblioteca dell’Utopia
T
essere la trama della Società
dell’Utopia sarà qualcosa di molto faticoso. Sarà peggio che
zappar la terra.
Sicuramente non potrà essere il prodotto dell’idea
(anche se geniale) di un singolo pensatore. E non solo perché
l’Utopia è la più radicale inversione di rotta della storia
dell’umanità, e quindi non una semplice variante di un sistema già
esistente, ma soprattutto perché implica la riscrittura dell’intera
enciclopedia sociale. Sarà essenziale allora organizzare una rete di
ricerca collettiva costituita da tante sedi di elaborazione politica,
e che si avvalga di strumenti interattivi a connessione dedicata, così
da consentire a tutti coloro che parteciperanno al Progetto il massimo
livello possibile di collaborazione e confronto. E quando ogni cosa
assumerà contorni più chiari, si potrà a quel punto, ma soltanto a
quel punto, premere l’interruttore della rivoluzione. Ma non sarà
come la ‘scintilla’ di Lenin, giacché quell’immagine rimanda più
a dei fuochisti piromani che non a dei ‘muratori’ laureandi in
ingegneria sociale.
La ricerca non contempla naturalmente
né docenti né studenti, né vecchi saggi né giovani
ingenui, bensì un gruppo internazionale di pensatori impegnati a
ideare la Società dell’Utopia, arricchendo o respingendo, tagliando
o ricucendo tutte le indicazioni che saranno poste sul tavolo della
discussione. Ma non necessariamente si dovrà lavorare tutti in équipe,
poiché l’idea originale scaturisce spesso dalla concentrazione
interiore, che richiede sempre un certo grado di isolamento. Né i
santoni della cultura né tanto meno i militanti dei partiti, compresi
quelli di sinistra, potranno essere accolti tra le file dei
ricercatori. Il pentitismo sarà tuttavia ammesso, non però come atto di
confessione, bensì di riflessione. Del resto, c’è forse in giro
qualche non-pentito?
Si dovranno costruire, prima di tutto, gli ‘scaffali’ della Biblioteca, cioè l’inventario e la
classificazione dei temi della ricerca. Quindi si definirà la
sotto-capitolazione degli argomenti, ciascuno con i suoi titoli e i
suoi indici, che andranno poi riempiti in modo sistematico e
approfondito. Ma non tutto il lavoro potrà procedere secondo una
preliminare e rigida ipotesi generale, giacché l’operazione prevede
anche la possibilità di derive del tutto impensate. A ogni
quesito si dovranno dare nuove risposte o congelare le
non-risposte, senza mai cadere nel vizio dello schematismo, che non
troverebbe, d’altronde, nessuna giustificazione nel sottinteso,
poiché nulla dovrà essere più dato per scontato. Ogni testo editato
rifletterà così il livello di crescita della ricerca. Ma senza
l’obbligo accademico di mediare le posizioni divergenti o di offrire
una sintesi di quanto è stato prodotto sull’argomento.
Si riconoscono come parte integrante
della ricerca le sperimentazioni di vere e proprie Isole di
Utopia vissute in prima persona. Anche se i campi semantici delle
parole ‘isola’ e ‘utopia’ sono così marcati da poter indurre
alla errata conclusione che si voglia chiudere l’Utopia in un’isola.
L’Isola ha perciò solo il valore di prova di
laboratorio e la funzione di cantiere sperimentale. Va considerata
cioè come uno tra i possibili strumenti di verifica, pur con tutti i
rischi di approssimazione o addirittura di divaricazione tra la
dimensione microscopica e quella macroscopica. Un altro strumento potrà
essere la cibernetica. E, specificamente, la nuova frontiera della
realtà virtuale, che simula situazioni e luoghi immaginari.
Bisognerà
certo accostarsi con cautela a tutti questi strumenti, senza però
assumere atteggiamenti di sufficienza nei confronti della loro
parzialità o banalità. Anzi, più strumenti si avranno a
disposizione, più sarà perfezionabile il Progetto e ravvisabile il
suo inveramento.
L’Utopia non sarà, comunque, la fotocopia su scala
allargata delle preliminari sperimentazioni né la pura e semplice
applicazione dei testi che andranno a riempire la Biblioteca. Anche il
rapporto teoria-prassi deve essere infatti reinventato, in quanto non
esiste nulla a cui rapportare la storia della nuova Società. Questo
limite è, però, anche un grande vantaggio, poiché libera i pionieri
della Nuova Era dal peso soffocante del sapere tradizionale. |
§ XX.
Sul
metodo della ricerca
I
l metodo di ricerca per l’invenzione
ragionata della Società dell’Utopia si articola essenzialmente in
due punti. Il primo consiste nell’opzione politica di realizzare «il massimo della ricchezza materiale e spirituale possibile per
tutti e per ognuno». Il secondo s’impernia sulla elaborazione di
progetti particolareggiati che diano corpo e colori al grande
affresco.
Tali progetti ovviamente non solo non dovranno contenere
contraddizioni interne, ma dovranno essere anche perfettamente
compatibili con il modello complessivo. Ogni questione, inoltre, per
quanto debba sempre combinarsi con la totalità dell’Utopia, deve
essere affrontata in maniera specifica, disaggregando ciò che finora
la tradizione ha tenuto legato.
È il caso, volendo esemplificare,
della triade amore-matrimonio-sesso, la cui interdipendenza
concettuale è solo una delle tante verità indimostrate che
imbrigliano la nostra civiltà. In realtà, quello che si vuole
costruire è una profezia rovesciata, che parta dal futuro per
annunciare la realizzazione, quanto prima possibile, di una storia a
sua immagine e somiglianza.
È tuttavia evidente che tale approccio
deduttivo comporta che ogni astrazione vada verificata, che di ogni
cosa si indichi il funzionamento, che ogni parto della mente sia
rapportato alla sua concreta fattibilità. |
§ XXI.
L’utopia
S.p.A.
E
bbene sì, la ricerca sull’Utopia
partirà proprio dalla costituzione di una ‘Utopia S.p.A.’, cioè
di una società di capitali che ne finanzierà i progetti.
Per creare
le idee, non bastano infatti la passione e l’intelligenza.
C’è
bisogno anche di finanziarle e di dar vita a un’organizzazione che
operi secondo un criterio ‘aziendale’ di massima efficienza, come
avviene per l’industria della ricerca. Giacché il Progetto si fonda
proprio sulla ricerca. È anzi la più importante delle ricerche.
Meglio sarebbe se la sede legale dell’Utopia S.p.A. venisse
costituita in qualche paradiso fiscale, meglio se la maggioranza
delle sue quote fosse formata da un pacchetto politico, meglio
se in questa società di capitali si riversasse anche il patrimonio
finanziario e immobiliare di chi intende conferire, in conto
collettivo, la personale ‘accumulazione’ realizzata nel
capitalismo.
L’Utopia S.p.A. è concepita, in ogni caso, come una
società di ricerca a tempo determinato. Nel senso che l’anno in cui sarà
fondato il Partito Rivoluzionario dell’Utopia sarà anche l’anno del suo
scioglimento. |
§ XXII.
L’anno
che verrà
L’
anno che verrà è per un autore
il secondo tempo del suo romanzo, delle sue poesie, del suo saggio. Un
secondo tempo che corrisponde, in genere, allo scenario della vendita
e della critica, per non parlare degli ambiti premi letterari. Io non
sono né romanziere, né poeta. Tantomeno saggista.
La forza e la
debolezza di questo testo sono frutto solo della tensione morale che
è presente in me, della passione mentale che mi stimola a trovare
risposta a quelle domande politiche che ogni giorno mi pongo e che per
me rappresentano la nuova frontiera ideale dell’umanità.
All’inizio, anni fa, quando decisi di riflettere
sull’Utopia, non sapevo quale direzione darmi. Tutto era solo magma.
E nulla è uscito di getto.
Ma è stato importante travasare quel
magma nella scrittura, che ha dato poi corpo e vita a questo libro,
tante volte riletto, ripensato e riscritto. Una volta decisa la
pubblicazione, ero consapevole che non si sarebbe trattato di esibirmi
a teatro. Lì tutti applaudono, specie quando si rappresenta la satira
contro il potere. Qui invece gli applausi non sono di scena. So bene,
anzi, che molti tenteranno di estrapolare da questo scritto delle
singole frasi per capovolgere il senso delle mie intenzioni. I
depressi, in particolare, cercheranno di rimuoverne il contenuto con
la frase più comune e convenzionale: "... tanto, è
un’utopia". E tra i depressi non mi desterebbe meraviglia
incrociare alcuni ‘ortodossi’ dell’ideologia comunista. Costoro,
mentre inveiscono contro le "contraddizioni strutturali del
capitalismo", ritengono comunque irrealizzabile una società
priva di contraddizioni fisiologiche. Arrivando persino a pensare che
la vita, senza le contraddizioni, diverrebbe monotona.
Ma, allora, che rivoluzione sognano?
E
perché sognano la rivoluzione?
So anche bene, tra l’altro, che le
cose qui scritte non rappresentano i punti cardinali dell’Utopia.
Sono anzi consapevole di non essere riuscito quasi mai a decollare
nella forma compiuta dell’immaginario utopico, perché troppo piombo
c’è ancora sulle ali delle mie idee: troppo anticapitalismo e poca
Utopia, troppa contrapposizione e poca propositività.
In tal senso
questo mio lavoro non è che un’istigazione a pensare. L’anno
della pubblicazione rappresenterà, perciò, l’anno dell’ascolto.
Uscito dalla clandestinità del pensiero solitario, vorrò udire se
c’è la disponibilità a riaprire il dibattito sull’Utopia. Io,
nonostante l’attuale scenario politico si presenti come una
nauseante massa gelatinosa, avverto che sotterraneamente nuove idee si
stanno muovendo.
In ogni caso, senza un progetto
esecutivo, dalle ceneri del capitalismo non sorgerà che un’altra
forma di società di classe e nuovi padroni prenderanno lo scettro del
comando. Ecco perché la nuova razza è chiamata a un
appuntamento epocale: attizzare la fiaccola dell’Utopia affinché la
sacra ebbrezza sia trasmessa alle generazioni future. Ora che la
logica del positivo ha ‘mostrato’ l’esistenza di una chiave
universale con cui spalancare le porte di una nuova storia, ora che
sono disponibili gli elementi di questo nuovo propellente, ora ha
senso più di prima desiderare l’Utopia.
Lungi da me presumere che
il prossimo giubileo della chiesa cattolica possa costituire
l’ultimo anniversario dell’ideologia cristiana.
Non ritengo, tuttavia, del tutto
occasionale la coincidenza tra la data di nascita della nuova logica e
l’avvento dell’anno duemila.
Per i vecchi credenti sarà
forse un segno del diavolo, per i nuovi potrà essere finanche il
segno del manifestarsi di Dio. Per me è solo il raggrumarsi di un
flusso collettivo, che si fa strumento della libera e ragionata
evoluzione delle donne e degli uomini su questo pianeta. L’unico
tempo a cui dobbiamo rapportarci è, comunque, quello dell’universo,
poiché solo gli eventi cosmici (a parte sciagure belliche o
ecologiche) possono modificare radicalmente le condizioni che
permettono la vita. E nella scala dei tempi cosmici, lo stesso sistema
solare non è più un vincolo per la specie umana. Prima che il Sole si sarà ridotto a un
freddo corpo celeste, sarà certamente possibile migrare su un’altra
Terra, come fu possibile all’Arca di Noè trasmigrando altrove per sottrarsi al diluvio.
Intanto possiamo anche dirci "ci
vediamo nell’Utopia", un po’ come è successo agli Ebrei, che
per migliaia di anni hanno pensato alla Terra Promessa. Ma se
l’Utopia è stata pensata, vuol anche dire che il fuoco contagioso
di quel pensiero potrà farla divenire Storia. |
§ XXIII.
Epilogo
È
stato anche il vivere in una città
totale come Napoli che ha aiutato l’autore a redigere questo
testo. Poiché in questa parte della Terra sono presenti, come in una
vetrina delle iperboli, le contraddizioni forti e quelle deboli, le
passate e le attuali, l’evoluzione tecnologica e il primitivo. È
questa poi una città dove ogni dimensione si esprime con meno veli,
per cui tutti i tipi di fenomeni (materiali e
spirituali) sono più facilmente leggibili nella loro severa nudità.
|
* @
lfa
|
|

Copyleft
Libera riproduzione parziale o totale dell'opera,
libera la sua diffusione telematica,
purché non per scopi commerciali
e a condizione che venga citata la fonte.
La
Casa Editrice |
Estratto dal libro Preludio alla Società
dell’Utopia
Autore Alfredo
Alì
Pubblicato dalla Casa Editrice

ISBN 88-900133-0-3
Printed in Italy
Prima edizione gennaio 1997 - Edizione Internet Settembre 2005
Su
Internet
www.utopia.it
|
|
SULLA
VESTE EDITORIALE e TIPOGRAFICA del VOLUME
Numeri di pagina in cornice
iconografica, color grigio/lieve in alto
pagina - Capolettera a inizio capitolo - Rientro del capoverso
per ogni proposizione compiuta - Caratteri
testo Tms Rmn
- Sei pagine allestite per postillare le Note
manoscritte del lettore - Legatura in brossura - Cucitura con filo di refe -
Copertina fustellata per finestrazione titolo - Mantella a quattro ante in
cartoncino Nettuno blu di grammatura 340 - Folium Arcoprint g. 120 in tonalità
tenue avorio - Pagine 150 - Stampa in sedicesimo 27x13,6x1,5.
|

|
Sul
volume
Le ultime copie
disponibili vengono donate a biblioteche pubbliche. Chi desidera leggere il
testo sul volume editoriale deve comunicare - con un E-mail
all'Editore - il nome e l'indirizzo di una biblioteca
a cui verrà inviata gratuitamente una copia del volume.
Editing
& Printing
editore@utopia.it
|
|
_
_

Homepage
|