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 Preludio alla Società dell'Utopia
Premio
«Nuovo Caffè Letterario 2001»
  

 Saggio sull'Utopia
 

@lfa *
Corrisponde alle iniziali dell’autore,
ma non è uno pseudonimo.
È piuttosto simbolo e metafora
di un nuovo cominciamento.

                             


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      § I.   Prologo

È
tempo d’inventare nuovi sistemi di vita che non siano vuote elucubrazioni sui futuribili, bensì ipotesi politiche capaci di promuovere un sistema sociale che renda affascinante e godibile l’esistenza delle donne e degli uomini sulla terra.
Chi crede impossibile questa progettualità ha già sprecato la propria vita e quella delle future generazioni, giacché la rinuncia alla rivoluzione è già la rinuncia alla domanda di felicità. Tuttavia un’impresa così ardua è possibile solo a patto di trasformare radicalmente le attuali modalità del pensiero. E quindi di liberarsi dal dogma del mercato, imparando a coniugare l’utilità con l’amore. Per nuotare dentro questa inesplorata dimensione, occorrerà perciò definire una nuova logica, intesa come relatività del positivo. In tal modo il muscolo del pensiero potrà muovere persone e cose con un riflesso istintuale che sia conforme e naturale rispetto alla nuova struttura politica. È però fin troppo evidente che l’attuale momento storico non consente di ipotizzare l’inizio del processo utopico in tempi brevi. Non aleggia oggi, purtroppo, alcuna carica di rivoluzionarietà che preannunci (sia pur vagamente) una qualche epifania. Al tempo di Cristo l’evento era già nell’aria, carico di presagi. Così fu anche prima del 1848, quando s’aggirava per l’Europa lo spettro del proletariato. Attualmente invece nulla (o quantomeno nulla di strettamente quantificabile) lascia presentire una domanda di Utopia, riscontrabile forse in taluni semplicemente come bisogno mentale.

Per dar vita a una nuova proposta politica, non si può non partire dalla prefigurazione di un sistema sociale in cui tutte le contraddizioni tendano ad annullarsi. Si dovrà realizzare ciò che i depressi considerano inattuabile, evitando, beninteso, di sconfinare nelle secche dell’inverosimile. È tuttavia fin d’ora essenziale, affinché si metta in marcia il treno del nuovo evento, indicare, con la massima chiarezza visiva possibile, tutti gli elementi che dovranno determinare il funzionamento della società che si vuole delineare. Una società necessariamente strutturata senza classi sociali, senza la proprietà privata dei mezzi di produzione, senza moneta né mercato né famiglia monogamica, e dove anche la democrazia non sia più regolata da rappresentanze delegate di tipo parlamentare. Ma non si tratterà di un semplice rovesciamento del modello capitalistico. Poiché dovrà essere il contenuto del nuovo a escludere il vecchio e non il passato a ingabbiare il futuro. Non conterà quasi più, in quest’ottica, il momento offensivo (anticapitalistico), bensì quello propositivo che, con la sua carica seduttiva, superi e sopravanzi il capitalismo. Verrà tralasciata, naturalmente, anche l’analisi dell’attualità politica, utile ormai solo per rincorrere, giorno dopo giorno, le mosse dell’avversario di turno. Le proposte che nasceranno serviranno, oltre che come istigazione a desiderare l'Utopia, da stimolo per riaprire un confronto politico di portata strategica, da troppi anni caduto in letargo. E, qualora se ne determinino le condizioni, si potrà costruire una fitta rete di ricerca internazionale per stilare il Manifesto dell’Utopia. Di sicuro il Progetto non potrà essere compatibile con l’attuale modo di essere della specie umana: da coloro che preferiscono la divisione in classi della società, per mantenere integro il loro ruolo di potere, a quelli che gradiscono, tutto sommato, la propria condizione di sottomessi. Si spera nondimeno che la realizzazione dell’Utopia possa venire alla luce attraverso un passaggio indolore, anche se è da ritenere altamente improbabile tale eventualità. Ragion per cui è d’obbligo assumersi fin d’ora tutta la responsabilità di una possibile separazione socio-antropologica.
Sebbene la teorizzazione del comunismo abbia trovato espressione in migliaia di pagine, pochissime sono state finora le indicazioni circa la struttura,  concreta e funzionante, di una società costruita a sua misura. Ovviamente, non merita neanche di essere presa in considerazione la miseria pratica e teorica del cosiddetto socialismo reale, poiché del tutto estranea ai contenuti dell’Utopia. Anzi, quelle esperienze hanno avvolto in un alone di grigiore spettrale l’idea stessa del comunismo. Ma forse questa ricerca ha già travalicato i confini etimologici di quel termine.

Se il cristianesimo si è alimentato della insopprimibilità della contraddizione (a partire dall’antitesi bene/male), il comunismo, che avrebbe dovuto portare al superamento di ogni contraddizione, non è stato capace di eliminare neanche quella tra i suoi princìpi e il modello di transizione. Da un punto di vista metodologico si può certo reputare corretta l’interpretazione della storia come lotta di classe. Tuttavia non si può non rilevare che la designazione del proletariato industriale come soggetto rivoluzionario abbia di fatto bloccato la costruzione dell’utopia. È stata cioè arbitrariamente abbinata una classe economica a un progetto politico tutto ancora da definire, legando erroneamente la classe del lavoro a quella della mente. Il proletariato, infatti, in quanto classe nascente dai rapporti di produzione borghesi, pur avendo i requisiti "oggettivi" per essere l’antagonista della borghesia, manca però della vera dimensione rivoluzionaria, che consiste nell’essere portatore di una diversa concezione della vita, in ogni suo aspetto. Il distacco dall’impianto marxista è perciò la condizione necessaria per tentare di dislocare la domanda di comunismo dall’alveo della contrapposizione al capitalismo a quello della consonanza utopica. L’abrogazione della proprietà privata, ad esempio, non dovrà più rappresentare una sorta di contrappasso storico (espropriazione degli espropriatori), bensì corrispondere a una nuova proposta che si faccia garante della libertà della domanda individuale. Troppo spesso, invece, la società attesa è stata ricalcata sulla tela del modello antagonista. In realtà era unicamente il vuoto di progettualità a determinare la forma della nuova società come effetto automatico del mero ribaltamento della precedente. Il sogno idilliaco dell’Utopia, al contrario, può realizzarsi soltanto con un salto nel pieno, attraverso un’invenzione della mente che consenta di superare, in direzione dell’amore sociale, i limiti e le incompatibilità della logica storicizzata della natura umana.

L’unica teoria che finora ha utilizzato l’amore come pratica politica è stata elaborata dal Dr. Cristo, il quale, anche se in buona fede, ha fatto della sua etica la più grossa operazione di mediazione sociale di tutti i tempi. È riuscito difatti a mantenere compattata la società divisa in classi, adoperando quella prassi come un efficace collante delle contraddizioni. Del resto solo in tal modo la parità sociale poteva essere esclusa dal calcolo dei fattori che determinano l’amore. Che perciò è diventato un concetto neutro, buono per tutti gli usi. Compito arduo ma essenziale sarà allora mostrare l’inadeguatezza della proposta cristiana. Non certo per crogiolarsi nel lutto per la morte di un dio, bensì per costruire una dottrina superiore, un amore vero tra uguali. Dove l’uguaglianza sia intesa come libera determinazione di tanti io, comunque tutti diseguali, tutti diversi uno dall’altro. L’amore, ovviamente, non è solo emozione sentimentale o erotica. È anzi il vero protagonista del Progetto Utopico. La sua problematica è parte politicamente integrante dell’invenzione di una nuova organizzazione sociale che si alimenti e viva di tale energia spirituale.




      § II.   Nota alla mancanza di note bibliografiche

Q
ualunque testo «che si rispetti» è corredato di note bibliografiche. Io me ne esento, essenzialmente per tre ragioni. La prima è che intendo dare a queste pagine un taglio deliberatamente antiaccademico. La seconda è che non rivendico nessuna primogenitura, consapevole come sono che spesso la mia elaborazione utilizza idee prive di una precisa paternità. O maternità, come nel caso del femminismo. La terza e ultima ragione è che a me interessa molto più lo sviluppo di un pensiero che la ricostruzione del suo albero genealogico. Il borghese diritto d'autore, in tal modo, si dissolve. E in maniera che non esito a definire prefigurante, soprattutto rispetto a come si intenderà produrre collettivamente il lavoro di ricerca. A riprova di quanto detto, non ho difficoltà a dichiarare che quasi tutto il contenuto di questo testo è stato già, in qualche modo, pensato e scritto da altri. Purtuttavia, di tanto in tanto, mi prenderò la libertà di citare dei passaggi con il nome dell’autore (ufficiale), poiché non assumo come regola assoluta neanche quella di non dover produrre riferimenti bibliografici.




      § III.   ‘Utopia’ come vocabolo politico

L’
utopia, come domanda politica, non appartiene né all’area culturale della tradizione né a quella del riformismo. D’altro canto, l’etimologia del termine (ou-tópos) contiene già una precisa opzione ideologica, presentando il suo stesso contenuto come storicamente inattuabile, e perciò negandolo. La gabbia del suo enunciato è tuttavia solo una delle spiegazioni del fatto che gli utopisti hanno fin qui proceduto con il passo del gambero. Un’altra è da collegare alla loro incapacità, privi com’erano di corrette coordinate metodologiche, di produrre un’analisi scientifica della società. Anche se i loro sogni erano impregnati di ideali libertari ed egualitari, quegli utopisti riuscivano a eclissare il permanere della divisione di classe (tipo il dualismo tra filosofi-sacerdoti e agricoltori) solo grazie alla capacità seduttiva dei loro racconti. Non a caso, quindi, in quelle fiabesche immaginazioni ritroviamo le stesse contraddizioni da cui intendevano allontanarsi. Va inoltre sottolineato che l’utopia non è che la trasduzione laica dell’idea religiosa dell’Eden partorita dalla cultura occidentale. Anche se il paradiso (terrestre) è stato localizzato in un luogo recondito e inaccessibile della terra, di forma quasi sempre circolare, chiuso e separato da un gran tratto di oceano, la produzione dell’immaginario religioso, in realtà, è stata molto più ricca di utopia rispetto a quanto hanno lasciato in eredità gli utopisti laici. Nelle rappresentazioni letterarie o pittoriche l’Eden viene sempre descritto come un luogo in cui abbondano i beni materiali (rivoluzione industriale) e domina la felicità (logica del positivo). La proprietà privata ovviamente non esiste, poiché ciascuno può avere tutto ciò che desidera (società della domanda). Per accedervi c’è poi bisogno di un passaporto eccezionale, di una guida angelica (classe rivoluzionaria), e non tutti perciò possono trovarvi ospitalità (separazione antropologica). Se però si vuole collocare l’Eden nella storia, occorre sostituire la letteratura con la scienza politica. E quindi, con uno sforzo di immaginazione superiore a quello delle stesse religioni, si dovrà essere capaci di tradurre il sogno in termini razionali. Il termine ‘Utopia’ è perciò qui disgiunto da ogni riferimento alla letteratura, religiosa o laica che sia, sull’argomento. È tuttavia politicamente comodo conservarne l’uso, dal momento che la parola "comunismo" è stata completamente sfigurata e depotenziata della sua valenza utopica dalla teoria e dalla storia di quei partiti-Stato che han preteso di parlare in suo nome.

È opportuno intanto fissare un paio di condizioni assiomatiche, essenziali per la configurazione dell’Utopia:
1) che essa diventa irrealizzabile ogni qualvolta è inserita in un contesto non utopico;
2) che non può essere parcellizzata, nel senso che nessun suo momento può essere decontestualizzato dall’intero processo.
Va poi sfatata l’opinione corrente secondo cui l’utopia è bella ma irrealizzabile. Tale luogo comune deriva, in sostanza, da una plurisecolare rassegnazione al non bello, cioè dalla convinzione che sia impossibile costruire un luogo in cui ogni dimensione del vivere entri in equilibrio con le altre, così da realizzare l’unità tra il bello come forma e l’estasi come contenuto.
Si parlerà comunque di Utopia solo in un quadro di una società a tecnologia avanzata, in quanto ogni riproposizione del comunismo primitivo sarebbe regressiva e puerile. La tecnologia, tuttavia, pur essendo l’unico mezzo in grado di affrancare l’uomo dalla schiavitù del lavoro ripetitivo, non costituisce, di per sé, né la condizione né l’orizzonte della liberazione del genere umano.
È inutile che gli amanti della preistoria si affannino a ricercare nel passato remoto reperti archeologici di presagio utopico. Se qualcuno ha bisogno di sentirsi rassicurato o cerca un appiglio che lo autorizzi a credere, sappia che la storia non ha mai offerto nulla che si avvicinasse alla Società dell’Utopia. L’esito ultimo, ad esempio, delle comuni, e in particolare di quelle cristiane, costruite attorno alla solidarietà assistenziale, è stato quello di assicurare a ciascuna persona il minimo indispensabile per sopravvivere. Il che, come risultato, sta in posizione diametralmente opposta al Progetto che qui si intende prospettare.
In assenza di classi da confortare, poveri da soccorrere, contraddizioni da sanare, verranno difatti a cadere le motivazioni di quel mutuo soccorso finalizzato ad alleviare lo stato di afflizione con il pianto del conforto. Non è che nella Società dell’Utopia debba esistere soltanto il pianto della gioia, ma certamente non ci saranno più le sofferenze legate alle svantaggiate condizioni e, di conseguenza, si dissolverà l’attuale funzione strategica della solidarietà.

Ovviamente, i degni eredi di chi si rifiutò di osservare, attraverso il cannocchiale galileiano, la conformazione fisica degli astri, saranno, a maggior ragione, incapaci di capire, con gli occhi della mente, i mondi, oggi immateriali, che verranno qui raffigurati. E sicuramente da costoro, ma non solo, pioveranno le accuse di predicare la morale peccaminosa dei frutti proibiti. Ma proprio queste "mele" (di una nuova moralità), una volta assaggiate e ingerite, apriranno le porte del giardino dell’Eden, per le quali in verità nessuno mai è passato. Gli increduli, invece, potranno invocare i fumi della follia. Che sia! Giacché, senza una dose di entusiasmo, di esaltazione, di furore della ragione, non si potrà mai avere la forza di muovere l’Evento della nuova Era.




      § IV.   Introduzione alla nuova logica

L
a logica costituisce quel binario invisibile che garantisce la coerenza di un certo punto di vista strategico. Una proposta politica che pretendesse di rivoluzionare persone e cose senza partire da una nuova logica sarebbe perciò un non senso, in quanto la storia continuerebbe a procedere lungo l’asse della vecchia logica.

"... ottiene i risultati più grandiosi applicando la legge logica della natura... che a ogni passo si rivela una intelligenza universale". "Chi vorrà negare il mirabile ordine dei fenomeni naturali, la loro armonia, organizzazione o sistematicità?"
Ma non basta rimanere incantati dall’effetto scenografico dell’ordine cosmico, per riconoscere unicità e universalità alla «legge logica della natura». Se non altro perché tale legge è un meccanismo tecnico di autoconservazione ed è perciò del tutto indifferente alla domanda di armonia sociale e morale presente invece nella società umana.
Che durante l'inondazione un fiume allaghi e distrugga tutto quello che incontra non dipende ovviamente dalla sua cattiveria, poiché la cattiveria è un disvalore morale di cui la natura non ha nozione. Lo stesso vale per la sopravvivenza degli animali, spesso legata all’uccisione obbligata e sistematica di altri esseri, o ancora per la prevalente assegnazione al maschio del ruolo gerarchico di capo-branco.
Una lettura della logica della natura secondo la scala dei valori etico-sociali porterebbe quindi all’erronea deduzione che essa è classista e maschista. Ma quasi tutto il tragitto del pensiero filosofico è stato segnato da quella prima svista. Ragion per cui, una volta sovrapposto il meccanismo del mondo delle cose al mondo degli umani, il non-peccato della natura è diventato (fisiologicamente) ‘peccato d'origine’ e strutturale dell’umanità. E il male, proprio perché considerato parte integrante e sostanziale della natura, è divenuto extra-logico anche per l’uomo.

La letteratura sul paradiso, conscia della discordanza tra ordine naturale e ordine morale, ha difatti disegnato il mondo perfetto stravolgendo le regole della natura animale, così che "... gli animali più diversi, tra i quali leoni e agnelli, cervi e conigli [vivono] gli uni accanto (a)gli altri, senza più che alcuna bestia porti veleno e offesa,... anzi [in modo] che essi siano prodigiosi, utili ed obbedienti".
La potenza dell’allegoria paradisiaca consiste, quindi, nell’idealizzazione di un mondo pacificato. Se però tale immaginario potesse divenire realtà, diverse specie animali sarebbero destinate a estinguersi in brevissimo tempo e la natura cambierebbe completamente volto.
L’evidente antinomia avrebbe dovuto consigliare di tenere separata, e quindi non applicare al mondo degli uomini, la logica della natura.
Ma così non è stato. Il pensiero laico, presupponendo un unico sistema logico, ha finito con il dedurre che la contraddizione politica è ineliminabile.
La concezione cristiana, d’altro canto, avendo anteposto l'origine del male alla comparsa dell’uomo sulla terra, ha reso il peccato extra-storico. Cosicché l'unicità della logica da un lato e la ‘extra-storicità’ del peccato dall’altro hanno impedito di entrare in una diversa dimensione di pensiero.

Chiunque tuttavia avesse solo supposto, prima di Einstein, l’esistenza contemporanea di più teorie generali, ciascuna (nel suo sistema di riferimento) valida per tutto l’universo, sarebbe stato considerato un pazzo. Ma anche quando Einstein ha dimostrato che la regola del sistema universale è la Relatività e non l’Unicità, questa asserzione, rivoluzionaria nel campo scientifico, non ha prodotto, sul piano della filosofia, un’analoga rivoluzione logica. Non è stata concepita, cioè, una «seconda logica». Che non solo navighi in sintonia con il contenuto spirituale dell’Utopia, ma che abbia anche un'essenza capace di determinare il movimento del concreto. L’esemplificazione più immediata di ciò può scaturire dalla comparazione tra fisica e filosofia.
Fino a quando, nel campo della fisica, tutti i fenomeni venivano spiegati con la meccanica classica, ai suoi princìpi si attribuiva "validità assoluta e universale". Quando però quella scienza non è stata in grado di definire alcuni fenomeni resi visibili dalla scoperta del campo elettromagnetico, sono sorte altre teorie generali (Relatività e Quantistica) che hanno trovato delle soluzioni a problemi prima irrisolvibili.
Per quanto riguarda la logica, si tratta ora di costruirne (o di scoprirne) una diversa da quella della contraddizione. Fermo restando, ovviamente, che quest’ultima ben risponde ai vecchi e ai nuovi quesiti sulla società di classe. Parlare di più logiche significa quindi che possono esistere più verità, ciascuna valida nel suo ambito di riferimento.

Prima di procedere alla formulazione di una nuova logica, occorre tuttavia avviare, seppur brevemente, il confronto con il punto di vista marxiano. Proprio perché da una serie di errori dovuti all’impostazione teoretica di Marx sono nati alcuni dei peccati mortali del comunismo storico. Intanto va subito detto che Marx, nonostante abbia inteso ribaltare la logica di Hegel, è rimasto profondamente hegeliano. Nel senso che quel capovolgimento ("dalla testa ai piedi"), interessando tutto il corpo di quel sistema logico, ne ha, di fatto, conservato sostanzialmente integra la struttura.
L’operazione di ribaltamento, infatti, pur spostando il punto di partenza hegeliano dalla tesi all’antitesi, implica comunque la pretesa di affermare negando. Si è riapplicato quindi quel principio dell’antinomia, che è esattamente agli antipodi dell’utopia comunista. La società senza più classi presuppone, invece, la fine della negatività o, meglio, la possibilità di annientare tutte le contraddizioni dell’esistente, di emanciparsi, cioè, definitivamente dalla dialettica della contraddizione. È vero che gli intellettuali comunisti cercavano un sistema logico che fornisse loro la chiave filosofica per uscire dal capitalismo, ed è anche vero che, col capovolgimento della dialettica hegeliana, è possibile innescare questa fuga. Ma è altrettanto vero che la nuova società continua a operare nella triade dialettica della contraddizione e perciò nella non-condizione dell’Utopia. 

La logica hegeliana e le sue coordinate etiche conservano comunque, ancor oggi, una loro attualità, perché ogni posizione può essere superata soltanto attraverso la negazione della negazione (negatività extra-logica). D’altronde, se Hegel sosteneva che "il pensiero è subordinato all’esistenza del reale, in quanto il reale è il suo fondamento e la guida della storia", e la storia è stata finora contrassegnata dalla contraddizione, non deve certo meravigliare che lo stesso Hegel (e non solo lui) abbia inevitabilmente conferito legittimità universale a quella logica. Essa peraltro sembrava offrire il vantaggio di non lasciar nulla fuori, per cui ciò che "doveva essere, è stato, ciò che è stato, doveva essere" e, di conseguenza, anche ciò che dovrà essere sarà.

È possibile, allora, entrare in una nuova relatività, dove non esista più la contraddizione come elemento che domina il meccanismo della vita?
È possibile entrare nella positività, come altro sistema, costante e coerente?
È possibile cotanto cambiamento?
La risposta non può che essere affermativa. Per comprendere, intanto, come sia pensabile la molteplicità delle logiche, bisogna partire da una «prima essenza», cioè da quella sostanza semplice che ne garantisce il movimento, e dimostrare o che questa essenza motoria funziona con un ampio ventaglio di sistemi, oppure che esistono più «prime essenze logiche». A questo proposito, Hegel, pur avendo sostenuto che il "segno distintivo" di tale essenza motoria è la «differenza», ha finito poi per saldarla esclusivamente al processo dell’auto-negazione. Ciò che qui si sostiene è invece la possibilità, anzi la necessità, di separare quella prima essenza dal legame esclusivo con la contraddizione, in modo che dalla differenza scaturisca anche la complementarietà, che compone l’armonia dell’asimmetria.
Così come – per via analogica – la diversità delle cariche elettriche dell’atomo non rappresenta uno stato di conflitto, bensì di conservazione del diverso. Tant’è vero che ogni atomo, nel suo complesso, si presenta sempre elettricamente neutro.
Ora, è proprio mediante l’analisi di una percezione fenomenologica che si giungerà a provare l’esistenza della logica dell’Utopia.
Ipotizziamo che ogni essere umano possieda due corpi: quello che ci appare materialmente e quello che ci avvolge immaterialmente. Questo corpo invisibile si può definire come una specie di «corazza di protezione» che gestisce e filtra il sistema delle relazioni tra persone. È, cioè, un’armatura ideologica, nata dalla conflittualità sociale, con funzione essenzialmente difensiva. Ci sono però degli attimi fuggenti in cui le relazioni vengono vissute in maniera candida. E sono dei momenti particolarissimi e inebrianti, nei quali si realizza una profonda coesione con l’altro attraverso due passaggi alquanto elementari:
1) la corazza di protezione scompare;
2) si sprigiona dell’energia.
In entrambi i casi tuttavia non si crea nulla. L’atto della creazione sta nel ‘rivelarsi’ e nello sprigionarsi di un qualcosa che era già presente in noi, come fonte di energia originaria. Quell’energia, tra l’altro, non è generata né dipende dalla contraddizione. E lo si può desumere dal fatto che il suo svelamento avviene proprio nell’attimo in cui le contraddizioni tendono ad azzerarsi. In tale processo neanche la mediazione è più presente. Non solo perché non c’è traccia di conflittualità, ma anche perché il ciclo dell’autoconservazione sembra ruotare dentro l’essenza di ciascuna forza. E la sintesi, se di sintesi si può parlare, è come se avvenisse dentro ciascun segno.
Sempre da un punto di vista fenomenologico, è evidente che il raggiungimento dello stato di estasi avviene attraverso un trasbordo diretto: passando, cioè, in modo reale e immediato, da una relatività a un’altra. Ed è una energia che, quando si rivela, si manifesta sempre allo stato puro, nel senso che la sua qualità e la sua forza non cambiano mai di segno. Essendo quindi purezza in sé, la si può definire l'Energia del puro essere.
Sembra, quindi, già esistere nella mente un sistema di interazioni capace di esercitare una precisa polarizzazione magnetica o, più precisamente, di orientare le funzioni della vita di relazione secondo una direzione fissa: il principio del piacere. Forse l'energia del puro essere non è interamente traducibile in nessuno dei linguaggi scientifici finora conosciuti. Certo è, comunque, che alla sua conoscenza e alla sua liberazione sono legati il destino e la fattibilità stessa dell’Utopia. Ma di che cosa è fatta, intanto, la corazza che la tiene imprigionata? Si potrebbe raffigurarla come un mosaico di vetrini colorati, ciascuno dei quali rappresenta una categoria etica. Così che ogni variazione cromatica produrrebbe nella persona un cambiamento dell’essere. E i colori potrebbero mutare da un grado massimo, il trasparente, quando si realizza la più alta emissione di energia (che si tramuta in illuminazione totale o estasi), a un grado minimo, il nero, quando l’energia non riesce a liberarsi neanche di poco. Il processo dello ‘svestimento’ è certo determinato dalla mente, ma anche dal bisogno di attivare relazioni a valore d’uso e non di scambio. E questo processo avviene e può avvenire in tutti gli esseri umani, in condizioni particolari. È ovvio, ora, che tali condizioni sono squisitamente politiche. Per chi vive in un mare di contraddizioni, sono infatti quasi inesistenti le occasioni per entrare in quello stato di ebbrezza.
Tutto ciò non significa, però, che sia sufficiente un atto unilaterale perché, all’apparire dell’energia, si determini una nuova qualità di rapporti. O l’atto è bilaterale, è collettivo (quindi politico), oppure la volontà unilaterale si esaurisce in una donazione personale priva di efficacia. Anzi, ogni atto di apertura unidirezionale (nel quadro della contraddizione) diventa un atto di ingenuità, che espone chi lo pratica alla pura e semplice derisione.
È altresì del tutto arbitrario pensare di definire quest’onda elettromagnetica come una fonte di divinità, se non addirittura identificarla con la divinità stessa. Per meglio precisare i termini della prova fenomenologica, sarebbe opportuno, tuttavia, seguire anche altri itinerari (in particolare quelli legati alle religioni orientali), che giungono a dei risultati apparentemente simili. Quei percorsi, però, viaggiano nella direzione dell’estasi puramente individuale. In ogni caso, ciò che adesso interessa maggiormente è mostrare che la fonte del positivo «c’è», che già esiste, che è parte integrante del nuovo sistema logico e che, accumulandone una gran quantità, complessa e diversificata, si può approdare direttamente alla qualità sociale dell’Utopia.
La negatività (extra-logica) di Hegel, dunque, può essere vinta, segno che forse tanto extra-logica non è. Si è arrivati, così, a livello intuitivo, a una prima definizione della logica dell’Utopia come relatività logica del positivo. Per chiarirne ulteriormente le coordinate, potrebbe essere utile, a mo’ di parallelismo concettuale, rifarsi al processo connesso alla velocità della luce secondo la teoria di Einstein. Non si tratta ovviamente di ipotizzare una relazione meccanica tra fisica e Utopia, ma di stabilire un’analogia forte tra la teoria della relatività, che ha aperto nuovi scenari scientifici, e la logica dell’Utopia, che può fare da supporto a inedite configurazioni sociali. Dunque, come in natura, in condizioni prossime alla velocità della luce, si determinano i fenomeni della relatività, così nel mondo umano, quando la velocità sociale si avvicina alla dimensione-limite (annullamento della contraddizione) si realizzano fenomeni sociali più o meno vicini alla dimensione del positivo utopico. Oltre la velocità della luce, si sa, non si può andare. Basta ricordare che, per aumentarla anche di un solo centimetro al secondo, occorrerebbe una forza infinita. E come non c’è nulla (nella natura granulare di questo universo) che possa oltrepassare quel limite, così non c’è nulla, nella logica umana, che possa andare aldilà dell’Utopia. Il limite della velocità della luce equivale, perciò, al massimo della felicità possibile, ma non a una condizione super-umana.

La religione cristiana, invece, ha accostato il limite del finito (l’amore universale) all’infinito in sé (Dio).
L’idea dell’utopia è stata quindi apparentata a quella dell’irraggiungibile infinito, mentre Dio, ridotto a valore umano, ha subito una vera e propria de-assolutizzazione. Tuttavia l’amore, pur essendo il più sublime dei valori, non può che proporsi come una peculiarità dell’umano. Ragion per cui Dio non può essere sinonimo (neanche) di amore. Va certo riconosciuto che tramite l’identità Dio-amore gli uomini hanno ricevuto l’ingiunzione di amare. Ma è anche vero che a quel verbo è stata tolta la caratteristica del godimento. Si tratta, allora, di scoprire un altro concetto di amore, compatibile con la nuova logica. E, una volta che si sarà approdati a tale scoperta, si sbloccherà (quasi sboccerà) buona parte del progetto esecutivo dell’Utopia.

Rileggendo le risposte dei primi pensatori dell’Occidente alle domande sull’Essere, sul Bene, sulla Verità, ecco che appare in tutta la sua limpida chiarezza il senso di potenti intuizioni quali "conosci te stesso" di Socrate e "in interiore homine habitat veritas" di Agostino. Ma allora quelle parole erano separate dalle cose e come sospese a mezz’aria. Oggi, invece, è possibile asserire che nella mente dell’uomo alloggia davvero una ragione (la logica del positivo) capace di fargli da lume e da guida sulla via della costruzione della felicità sulla terra. Gli attuali ‘filosofi dell’Io’, dopo millenni di ansietà speculativa, dopo che "nessuno è arrivato a se stesso", hanno concluso che non c’è nessuna cosa da trovare o costruire dentro di noi, per cui "se il dentro deve essere un posto, l’Io è un posto vuoto". Anche se poi attenuano il loro nichilismo affermando che ciò "non equivale a sostenere che l’atto di guardare in quella direzione sia inutile".
Ma se la natura "a ogni passo si rivela una intelligenza universale", perché mai questa intelligenza dovrebbe arrestarsi sulla soglia del mondo delle cose e degli animali? Perché mai questa natura intelligente diverrebbe poi incapace di fornire agli umani un’altra logica, compatibile con l’espressione più alta della loro etica? La verità è che questi filosofi, epigoni di una grande tradizione, non potranno trovare il baricentro dell’Essere, non essendo sintonizzati con il cuore pulsante del nostro Tempo, che è il bisogno di Utopia. Ora comunque nulla appare più avvolto nelle nebbie del mito, poiché la spiritualità verso cui si tende è palpabile.
È tempo perciò che la celestialità diventi consuetudine quotidiana. Un cosmo sta per spalancarsi sul vecchio cosmo. E sicuramente non sarà neanche l’ultimo cosmo accessibile all’uomo.




      § V.   Religioni e utopia

P
arlare di Dio è stato quasi sempre problematico per chi si è collocato in una prospettiva rivoluzionaria. Ma la contrapposizione politica alle religioni ha indotto al rifiuto del trascendente, producendo così una spiritualità e una sensibilità di gran lunga inferiori a quella religiosa. Come se, osservando l’abbazia di San Galgano, priva del tetto di copertura, si venisse colpiti solo dal cielo attraversato da nubi o dalla geometria degli astri. Non si tratta comunque di sciogliere l’eterno dubbio su Dio, quanto di provare che l’etica religiosa non è né la ‘teoria’ in assoluto né la più alta affermazione della vita.

È noto che un ruolo non marginale nell’invenzione della religione è stato giocato dal bisogno di elaborare, secondo un modello piramidale con all’apice il concetto della divinità, una teoria che spiegasse il processo del divenire dell’universo, della natura e degli esseri umani. Su tale discendenza verticale si sono poi fissati i princìpi metafisici e la relativa architettura politico-sociale che ne è conseguita. L’etica umana è stata perciò costruita sull’imposizione di un "dover essere" religioso, piuttosto che a partire dalle norme di una ragionata convivenza. In quella prima fase, d’altronde, per imporre e far accettare regole sociali più avanzate, era forse necessario accreditare l’esistenza di un mondo sovrannaturale che superasse la parzialità e la finitezza dell’uomo. In tal modo la specie umana ha potuto prendere le distanze dalla sua radice primitiva, saldamente ancorata alla istintualità, per approdare a un primo sistema di rapporti sociali mediati. Ma se le religioni hanno potuto convivere con l’evoluzione delle società è perché, tutto sommato, le società hanno ruotato attorno ai loro capisaldi e non viceversa. Utilizzando un linguaggio sentenzioso e senza mai staccarsi dal grande tema della salvezza eterna, hanno parlato e parlano più compiutamente di politica di quanto non sappia fare, ancora oggi, qualsivoglia ideologia. In questo senso le religioni fanno più politica con la loro filosofia morale che non i partiti con le loro alleanze e strategie. Questo spiega anche perché le religioni, diversamente da quanto avviene per gli Stati e le forme di governo, sopravvivono agli scandali e alla corruzione, a inesattezze anche grossolane, a guerre e scismi. Spesso, anzi, le loro pecche sono state addebitate a errate applicazioni dei princìpi, così che l’invocazione del ritorno alle origini ha scavalcato a piè pari l’analisi delle loro antinomie strutturali. Ma nessuna deviazione, neanche la più grave, ha mai modificato i fondamenti della loro filosofia morale, che sono rimasti sostanzialmente in linea con il messaggio essenziale dei fondatori. Se da un lato tuttavia è possibile scoprirne i raggiri, dal momento che basta trovarvi «una sola» imperfezione per escludere l’origine divina delle religioni, dall’altro, la dimostrazione delle loro antinomie, da sola, serve a ben poco. Il bisogno di rassicurazione continuerà infatti a ossigenarsi con il respiro metafisico della preghiera, poiché quella pratica è così consolidata da apparire impermeabile a qualsiasi critica. In tal senso (questo) Dio non è ancora morto, e non è detto che, quando si sarà scoperta la strada della felicità terrena, l’idea dell’Assoluto debba necessariamente morire.

Se il Dr. Cristo ha individuato nella povertà lo strumento della liberazione degli uomini, è anche perché non è riuscito a concepire la ricchezza come valore positivo. Nelle società pre-industriali, d’altronde, le masse vivevano una vita così indigente che neppure un’equa distribuzione della ricchezza esistente avrebbe potuto migliorarla in misura significativa. Di conseguenza per millenni la miseria è stata assunta come condizione naturale. Ed essendo inimmaginabile (utopica) la produzione di una gran quantità di beni e ancor più la loro diffusione di massa, anche le ideologie erano prigioniere della povertà. Ecco perché la tensione verso la società del meno peggio (la proposta cristiana) era il massimo cui si potesse aspirare. E difatti il Dr. Cristo non solo ha supposto (dogmaticamente) che la povertà non potesse essere eliminata, ma è giunto addirittura a indicarla come valore. In verità (è proprio il caso di dire "in verità") Gesù, anche se in buona fede, ha solo illuso i poveri di poter arrivare sul piolo dei primi. Imponendo loro di restar poveri, e quindi ultimi, non ha fatto altro che ribadire, consapevolmente o no, che la scala di classe è l’unico metro possibile della storia umana. Ai cristiani infatti non si è mai vietato di possedere schiavi, mentre agli schiavi si è comandato di amare il proprio padrone. In realtà soltanto nel Settecento, con la nascita del pensiero liberale, è stata messa in discussione la schiavitù, e non certo grazie al cristianesimo, che (in questo) ha seguito le orme del pensiero di Platone e di Aristotele. E tale ‘svista’ non è stata casuale. Ma è fin troppo ovvio che la felicità non può realizzarsi in presenza della povertà o della differenza di classe, bensì in un quadro di sana ricchezza. Di una ricchezza, cioè, che è sana perché ricca, contemporaneamente, di beni materiali e spirituali. La ricchezza della povertà rispecchia, al contrario, uno stato di desolazione esteriore che non può non divenire interiore, fino a coincidere con l’infelicità. L’aspirazione a una sana ricchezza, che rappresenta la premessa a ogni progetto utopico, manca però totalmente al cristianesimo, ridottosi a gestire l’organizzazione pauperistica dei bisognosi. Oggi, invece, può nascere il desiderio del molto meglio (l’idea centrale dell’Utopia), poiché finalmente si può immaginare una società più sviluppata del capitalismo. Che comunque ha il merito storico di aver fornito la dimostrazione tecnica di come, attraverso la rivoluzione industriale, si possa moltiplicare in modo laico "il pane e il vino" e sconfiggere così il dogma della povertà.

"Beati voi, che siete poveri", recita il Vangelo. E così di seguito: "Beati voi, che ora avete fame, [...] Guai a voi, che ora siete sazi, [...] Guai a voi, che ora ridete, [...]".
Ma non ci sarebbe più beatitudine se ognuno vivesse in condizioni materialmente agiate e ricco di spiritualità amorosa?
Ora, uno dei limiti strategici del Dr. Cristo è che il razzo della sua liberazione non riesce mai veramente a innalzarsi, incatenato com’è alla terra dal dovere della povertà e da un amore di tipo sacrificale. Che, non potendo essere desiderato, è divenuto un atto di dolore (l’amore della Santissima Addolorata), accreditato falsamente come il più alto degli amori. È evidente, a questo punto, che fatica e travaglio siano connaturati alla promessa cristiana. L’amore di Cristo perciò è essere mediocre, perché mediocre è la forma di vita che Egli ha immaginato. Strano a dirsi, ma ciò che manca alla proposta di Gesù, di Colui che ha postulato l’amore come verbo onnipresente, è appunto la forza onnipotente del desiderio: la sola capace di far ardere d’amore gli esseri umani. Anzi, per sopperire all’assenza di una sana ricchezza e di un sano amore, è stato frapposto un baratro invalicabile tra la felicità irrealizzabile nel regno umano e quella custodita esclusivamente nel regno dei cieli. Nonostante ciò, sarebbe falso sostenere che nel cristianesimo non sia presente la domanda di utopia. L’idea del paradiso ne è la dimostrazione. Ma quella domanda è stata pignorata dal comandamento religioso, che ha mutato il bisogno di amore umano in bisogno di amore divino. Di tracce utopiane rimangono perciò, nel messaggio cristiano, solo dei frammenti indecifrabili, poiché la religione ha trasferito la domanda del paradiso utopico fuori dal mondo reale, eludendo il progetto originario dell’Eden nello spazio e nel tempo della vita. In questo modo l’amore c’è, ma non si vede, non si tocca, né tantomeno può scendere in mezzo a noi.
Il pregare, in questo senso, rappresenta la più straordinaria invenzione (psicologica) relativa ai modi di comunicazione tra uomo e Dio, poiché permette non solo di instaurare un dialogo con la divinità, ma anche di entrare in "possesso" del suo amore. La preghiera è infatti simile a una telefonata che non esige risposta. Anzi, presupponendo che Dio stia sempre in ascolto, ogni argomento può divenire oggetto del proprio interrogarsi. Se la leva del pregare è nel dio immaginato, la sua potenza è, quindi, soltanto nel credente, cioè nel monologo interiore. L’essere espressa in forma rituale è infatti parte integrante e sostanziale del suo contenuto psicologico. E oltretutto il dialogo in absentia possiede un potere evocativo e suggestivo senza pari. Se da una parte tuttavia non si intende escludere la possibilità di una preghiera laica come forma di concentrazione dello spirito, dall’altra è fin troppo evidente che la preghiera religiosa risponde a ben altre esigenze. Rappresenta quasi sempre l’ultima spiaggia davanti alla morte o alla necessità di alleviare le sofferenze. La forza della sua suggestione non solo placa, ma fornisce anche un sostegno immaginario, al tempo stesso evanescente e forte, labile e autorevole, e perciò più «solido» di quelli concreti e razionali.
La preghiera contiene, dunque, tutta la forza del bisogno e tutta la debolezza della risposta differita al bisogno. Salda tuttavia la distanza e la contraddizione tra realtà supposta e realtà vissuta, cioè tra amore e non-amore, e si propone come il principale strumento terapeutico di liberazione dal male, entità indefinita (extra-logica) che sovrasta, come presenza naturale, ogni paesaggio umano.

"Ego te absolvo a peccatis tuis..."
Questo tracciato (che ben esemplifica la logica del cristianesimo) è tutto legato alla visione del bene come sottrazione del negativo. Anziché infiammare l’anima di desiderio, si comanda infatti di non fare ciò che non va fatto. Per cui liberarsi dal male, come dal peccato, si risolve in un’operazione che toglie e non aggiunge nulla. E proprio perché suppone un futuro immodificabile, tale operazione prevede, con matematica certezza, che dopo il perdono si debba tornare a peccare, così da rendere l’uomo da una parte obbligato e dall’altra libero di sbagliare sempre. Il peccato non è perciò utilizzato come elemento di analisi sociale per indicare un diverso sistema di rapporti che spezzi la coazione a ripetere. E la riflessione che innesca si risolve, in definitiva, tutta nell’interiorità del soggetto. Ragion per cui l’intero meccanismo è raffigurabile come la corsa prevedibile di un treno che ritorna sempre nelle stesse stazioni.
Analizzare la natura del peccato, d’altronde, equivarrebbe a esaminare le condizioni che lo determinano. E ciò porterebbe inevitabilmente alla messa in discussione di tutta l’architettura sociale. Il dio immaginato, infatti, non contempla la possibilità di altri percorsi, ma soprattutto non ha interesse a che gli uomini si emancipino. E intanto, avendo avocato a sé tutto l’amore, quel dio autorizza la flagranza di reato.
L’incurabilità del peccato diventa perciò, prima ancora che trasgressione delle regole, l’unica vera regola eterna, dato che al di fuori dei comandamenti passivi del non fare non sono stati mai indicati quelli attivi del fare positivo. Una teoria che pretenda di essere veramente divina dovrà, allora, più che indicare la mediazione delle contraddizioni, realizzarne la definitiva soppressione. Dopodiché i comandamenti-divieti non avranno più ragione di essere, venendo a cadere le condizioni del loro determinarsi. Non più quindi i comandamenti del non fare, bensì le regole della felicità. Questa è la vera profezia mai rivelata!

Ora, creare una nuova socialità è molto difficile, molto più difficile che inventare una religione, molto più difficile che inventare Dio.
Verrebbe voglia di dire che il concetto dell’Utopia e il concetto di Dio si equivalgono, nel senso che finora nessuno li ha mai conosciuti. Un dio, però, è stato inventato e sarà sempre possibile inventarlo, poiché nessuno potrà mai dimostrarne la non-esistenza. Creare l’Utopia significa, invece, sottoporne la validità a una permanente verifica. Anche per questo la progettazione dell’Utopia sarà molto più complicata dell’invenzione di Dio. Ma quando si sarà realizzata, si entrerà in un concetto più ampio dell’attuale idea del divino.
Se qualcuno tuttavia pensa di rinunciare alla ricerca sull’Infinito, costui rinunci pure alla sua attività di pensiero.




      § VI.   «Storia comunista» e Utopia

L
a metodologia marxiana, essenziale per scardinare l’idea di naturalità della società di mercato, non può tuttavia essere assunta come riferimento concettuale da chi cerchi di immaginare le regole di una società completamente nuova. La forma di quel comunismo è nata difatti da un mero ribaltamento della società borghese e le esperienze che ne sono derivate non hanno partorito che un capitalismo rovesciato. Va rammentato, a ogni buon conto, che Marx parlava del comunismo come "ricchezza qualitativa dei liberi bisogni umani". Ma la mistificante interpretazione che ne ha fornito il cosiddetto socialismo reale ha, in effetti, generato tutt’altra cosa. Se questo è vero, è anche vero però che la degenerazione è avvenuta perché già dentro quel primo embrione di teoria erano presenti le contraddizioni che si sono poi storicizzate. Non è plausibile, infatti, che a partire da una certa teoria si possa costruire una storia di segno totalmente opposto. Rimane, in ogni caso, senza risposta la questione dell'assenza di critica alla mancata realizzazione del progetto comunista da parte di chi doveva esserne il garante. Risulta inspiegabile, cioè, che proprio la classe operaia non abbia mosso la benché minima critica alle contraddizioni di quella storia che l’ha vista (anche) protagonista. Tra l’altro, in un regime autoritario, è pur sempre possibile organizzare una resistenza e quindi un’opposizione politica. Invece, né resistenza né opposizione ci sono state da parte del proletariato, bensì solo silenzio, che politicamente equivale a consenso.
Altro che soggetto ideologico, altro che classe rivoluzionaria!
Il femminismo, a conferma di quanto si è detto, non è nato tra le donne proletarie e rivoluzionarie del socialismo reale. Eppure la lotta di classe donna-uomo precede la lotta di classe proletariato-borghesia.
Ora, la ragione non può che essere una sola. Le masse del proletariato, sia uomini che donne, per quanto effettivamente interessate a migliorare la propria condizione, non esprimono, in quanto tali, il bisogno di una forma di vita che vada nella direzione dell’Utopia. Benché sino a oggi nessuna proposta abbia saputo cogliere compiutamente la domanda dei desideri positivi, va tuttavia sottolineato che c’è una sostanziale differenza di responsabilità tra le teorie che hanno messo intenzionalmente al centro della loro finalità la seduzione paradisiaca della felicità e quelle che hanno semplicemente utilizzato le masse come forza inerziale. I contadini seguaci di Lutero, ad esempio, eccitati dalla dichiarazione che l’Anticristo domiciliava presso la corte papale, credettero immediatamente che, sulla scia di una riforma religiosa, si potessero spalancare le porte ai loro desideri di giustizia sociale. Quelle 95 Tesi, però, erano nate esclusivamente come espressione di polemica teologica e solo impropriamente avevano assunto una valenza politica. In quel caso, perciò, non c’era alcun obbligo, da parte del monaco di Wittenberg, di difendere le classi subalterne o di fornir loro un preciso progetto di liberazione sociale. Coerentemente, Lutero poté difatti replicare alle masse (rivolgendosi ai Signori), usando le stesse parole della Chiesa di Roma: "Trattare umanamente i propri sudditi, affinché i sudditi rispettino le leggi dei padroni".

Le responsabilità della storia comunista sono, invece, molto più gravi.
Il comunismo infatti, fin dalla sua nascita, ha dichiarato di voler sventolare la bandiera della liberazione. Ha tradito perciò i suoi stessi princìpi. La fine di quella parabola sembra ora allontanare anche l’idea della speranza utopica. Ma non era certo quell’esperienza a tener tesa la molla dell’utopia. Anzi, la capitolazione di quell'impero del male può rappresentare la condizione ideale per la nascita di un autentico Progetto, proprio perché quell'ipoteca di primo grado non grava più sull’idea stessa di Utopia.




      § VII.   Sul futuro del capitalismo

C
on l’avvento della tecnologia avanzata, l’offerta è divenuta pressoché illimitatamente incrementabile. E ciò ha determinato l’interesse del capitale ad aumentare la domanda, finora frenata, per qualità e quantità, dal basso potere d’acquisto delle masse. Ma neanche questo, ora, è più sufficiente. All’inizio della rivoluzione industriale, qualunque merce venisse prodotta, prima ancora che essere una novità, soddisfaceva un’esigenza primaria. Attualmente, più o meno appagato quel bisogno, si stenta a realizzare prodotti completamente nuovi, capaci cioè di proporsi come necessità di acquisto. È come se si fosse determinata una specie di povertà dei ricchi; nel senso che tutti hanno tutto, ma nessuno ha veramente quello che desidera. Le attuali tendenze alla mondializzazione hanno inoltre invertito la rotta tenuta nei decenni precedenti. Le sacche di arretratezza cominciano a non essere più funzionali ai profitti, dato che la povertà non consuma e non compra nulla. Motivo per cui il capitalismo tenterà, nell’immediato futuro, di favorire la scomparsa della povertà (o, meglio, di aumentare la percentuale delle fasce ricche nei paesi poco industrializzati), poiché solo in tal modo potrà realizzare il mercato mondiale in tutta la sua ampiezza. Se la borghesia, infatti, ha abbracciato la bandiera di un certo pacifismo, è perché soltanto una società pacifica può assorbire una gamma e una quantità crescente di nuovi prodotti. È ovvio che questo tipo di pace (opportunistica) sarà mantenuta finché gli affari ne alimenteranno il bisogno, altrimenti cesserà ogni interesse a conservarla. Anzi, è prevedibile che se in tempi abbastanza brevi non ci sarà una nuova generazione di prodotti a ridar fiato alle vendite, si porrà la ragionata necessità della guerra per riattivare la domanda.

Ma cosa ci serba il capitalismo nel futuro non prossimo?
Quali potranno essere i suoi nuovi scenari?
L’ago della bussola va sicuramente verso la fine dell’Età del Lavoro. E quell’evento coinciderà con la realizzazione degli Esseri Tecnologici, cioè di soggetti artificiali capaci di sostituire gli uomini in ogni fase del processo lavorativo. L’elemento inedito di queste macchine sarà la loro completa autonomia. Nel senso che avranno la capacità di accrescere il proprio apprendimento, di ‘partorire’ altre macchine e di eseguire ogni tipo di operazione: dalla progettazione alla costruzione, dalla consegna al riciclaggio. Quando compariranno tali Esseri, esauritasi la necessità di lavorare, verrà a dissolversi anche l’attuale struttura politica e culturale, poiché attorno al lavoro è stata costruita non solo l’organizzazione dei bisogni materiali, ma anche larga parte della concezione ideale della società.
Per l’attuale assetto economico, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche, giacché, venendo meno il lavoro, verrebbe meno anche il criterio che determina la formazione del valore della merce. E, rompendosi il meccanismo con cui si forma il denaro, il funzionamento del capitalismo potrebbe entrare in caduta libera.
Bisogna stare attenti, però, a non cadere nell’attesa fatalistica del crollo del sistema o a concepire come automatico il passaggio all’Utopia. Prima di tutto perché infinite possono essere le nuove vie del capitalismo. E poi perché da nessuna parte sta scritto che questi nuovi scenari preparino le condizioni per la qualità della vita richiesta dall’Utopia. Gli Esseri Tecnologici potrebbero, difatti, svilupparsi anche in regime di proprietà privata dei mezzi di produzione e dar luogo a nuove forme di schiavitù sociale compatibili perfino con la soppressione del denaro.


 


      § VIII.   Tra antagonismo e rivoluzione

S
i sta forse realizzando il sogno di quei pensatori del Settecento che immaginavano un modello di capitalismo libero e aperto. Libero, in quanto tendente a eliminare tutti gli ostacoli all’acquisto della proprietà. Aperto, perché chiunque esprimesse un’alta produttività avrebbe accesso ai vertici della piramide sociale. In ogni caso, l’architettura mobile dell’attuale società, modificando continuamente la posizione produttiva, ha fatto perdere stabilità anche alla configurazione strutturale della classe operaia. Non sono questi, tuttavia, i soli motivi per cui è entrato in crisi il modello marxista di classe rivoluzionaria.
In realtà, anche se nessuno si è mai sognato di affermare che la classe operaia è rivoluzionaria a prescindere dall’opzione politica, di solito questa considerazione è stata lasciata scorrere come acqua sul marmo. Nessuna classe subalterna, del resto, nasce rivoluzionaria. La classe operaia, infatti, prima ancora di avere un ruolo antagonista nei confronti di chi la sfrutta, è conforme all’utilità della classe che l’ha partorita. È perciò tutta interna a questa utilità la sua prima natura politica, che la connota come soggetto sociale privo di autonomia logica e ideologica.
All’ambiguità strutturale del proletariato il marxismo ha cercato di sopperire sostenendo che "le posizioni teoriche del comunismo non poggiano sopra delle idee o princìpi inventati o scoperti da una nuova teoria, ma sono l’espressione generale dei rapporti effettivi di una lotta di classe già esistente". Ma come può la madre-storia generare le "posizioni teoriche del comunismo", se è gravida di contraddizioni e se non ha mai conosciuto la dimensione di equilibrio richiesta dall’Utopia?
E non è tutto.
Se l’atto di nascita dell’uomo è nella storia di classe, lo "sviluppo delle condizioni storiche oggettive" innesca, sì, un processo evolutivo ma tutto interno alla società di classe. Lo sbocco naturale di questa storia non può essere perciò che l'utopia liberale.

La nuova classe rivoluzionaria non deriverà quindi da un soggetto storico, proprio perché storicamente non c’è stata rottura bensì continuità, e neanche da un soggetto economico, poiché il vero soggetto del capitalismo è l’imprenditore. Le altre classi, difatti, non sono che soggetti al suo servizio. Non basta tuttavia creare una nuova posizione teorica perché sia possibile una nuova storia. Senza le condizioni determinanti legate all’esplodere delle contraddizioni, il meccanismo messo in moto dalla Teoria Utopica non consente, da solo, il salto nella nuova Era.
La legge che muove le classi subalterne è il terzo principio della dinamica trasferito sul terreno dei rapporti sociali, cioè una reazione uguale e contraria allo sfruttamento subìto.
Per entrare in una nuova costruzione (ideale e materiale) occorre, invece, far riferimento a una forza che abbia una sua energia autonoma. E questa forza non può essere che la tensione verso l’Utopia. Il proletariato, sosteneva Marx, "non avendo più nulla di proprio da salvaguardare" e non possedendo fini particolari, non può avere che finalità generali. Per queste ragioni i proletari azzereranno le "sicurezze private e le guarentigie finora esistite [...] per mutare le condizioni di se stessi e degli altri". Ma non è detto che non aver "nulla di proprio" significhi necessariamente volere il proprio di tutti. Né che la mancanza di "fini particolari" induca a perseguire fini generali. Il capovolgimento dei bisogni negati non produce cioè automaticamente la domanda di Utopia. E soprattutto, come può il «nulla» rappresentare la proposta di un diverso pieno?
È infatti infondato ritenere che il proletariato, nel momento in cui si contrappone alla borghesia, intenda edificare un nuovo modello di società che vada nella direzione del comunismo. Prove inconfutabili ne sono i fallimenti, per difetto di spinta ideale, di tanti sedicenti movimenti rivoluzionari. La classe operaia, in realtà, è stata estrapolata come classe rivoluzionaria sulla base della categoria del lavoro, cioè dei rapporti di produzione nella società di classe. La categoria del lavoro, però, non è una categoria ideologica (una posizione teorica). Risulta perciò improponibile un rapporto di derivazione meccanica tra lavoro subalterno e ideologia utopica.
Gran parte delle lotte operaie non sono state difatti che aspre battaglie sindacali. E non a caso, superato il momento dello scontro, quasi sempre la classe operaia si è riadagiata nel suo ruolo di classe subalterna. Non si vuole certo svuotare di significato e d’importanza il patrimonio politico della classe operaia, che ha il merito storico non solo di aver difeso gli spazi di democrazia dentro e fuori la fabbrica, ma anche di aver ampliato l’orizzonte del capitalismo e, più in generale, della cultura tradizionale. Né si vuole escludere che ci siano stati momenti di reale consonanza tra contrapposizione al capitale e domanda utopica. Si vuole solo correggere l’errore di chi ha innalzato il proletariato agli altari come classe rivoluzionaria per definizione.
Per determinare le forze genuinamente interessate all’Utopia, è necessario invece entrare in una logica nuova.
Anziché una «classe del lavoro», tenderà infatti a determinarsi una «classe della mente». E la mente si configurerà appunto come l’incarnazione stessa della nuova logica, dei nuovi bisogni e della scelta strategica di vivere nella dimensione del valore d'uso, cioè con pienezza nel tempo.
Nulla toglie però che gli individui che realmente impersonino i bisogni utopiani possano provenire anche da classi storicamente borghesi.
E se pure la nuova classe dell’Utopia potrà trovare il suo humus tra le classi antitetiche alla borghesia, essa non conserverà in ogni caso nulla delle aggregazioni rivoluzionarie tradizionali.




      § IX.   Le donne come classe e non classe

I
l primo scontro di classe fu vinto dal maschio, che instaurò, com’è noto, la sua dittatura sulle donne. E per quanto ci si rifiuti di raggruppare tutti gli uomini in un’unica e stereotipata categoria, non è tuttavia né semplicistico né ideologico parlare di una classe dominante maschile contrapposta a una classe femminile dominata.
Nel rapporto storico donna-uomo le relazioni e le mediazioni si sono però da sempre intrecciate in maniera del tutto irregolare. Le donne, cioè, sono state contemporaneamente sottomesse e amanti, oppresse e amate. La donna è stata anzitutto obbligata a inventarsi una coabitazione amorosa nella conflittualità che, evidentemente, non poteva non plasmare profondamente il suo comportamento. Al punto che, pur essendo l’antitesi del maschio, non si è mai posta, storicamente, come sua antagonista.
Non desta perciò meraviglia che la logica femminile prenda le mosse dalla suscitazione del desiderio, che è l’esatto capovolgimento del meccanismo della reazione. Nel senso che ogni contraddizione, anziché essere respinta, viene dalle donne non solo assorbita ma anche rigenerata e restituita al maschio come atto d’amore.
È delle donne infatti la prerogativa del perdono, mentre è dei maschi quella del lasciarsi perdonare. L’uomo, così, non si redime, poiché le sue colpe sono di fatto emendate dalla compassione amorosa di colei che ha subito l’offesa. Proprio come se l’oblazione venisse pagata da chi ha ricevuto il torto e non da chi l’ha commesso. In tal modo il maschio, se da una parte è attore della contraddizione, dall’altra è spettatore della sintesi, operata esclusivamente dalla donna. Un circuito certo autonomo, ma che agisce da sotto-dialettica della logica maschile.
Le donne, insomma, hanno giocoforza preferito la ‘pace’ della sottomissione allo scontro. E quest’atteggiamento ha probabilmente consentito la realizzazione dell'unità nella disunità. Ma, nel porgere continuamente l’altra guancia al maschio, proprio le donne hanno dimostrato che il nemico, benché amato, non si trasforma in soggetto amoroso. Quell’atto di compassione misericordiosa placa, sì, i contrasti, ma nella dimensione del congelamento e non del mutamento dei rapporti. Ragion per cui quella donazione femminile non libera né può liberare le energie dell’amore autentico. Non a caso, terminata la pausa dell’armistizio, rispuntano le stesse contraddizioni di prima. Il prezzo pagato per la loro funzione di mediatrici sociali è stato comunque altissimo. Non ultima l’esclusione, quasi totale, da molti campi dell’esperienza e del sapere umano, dalla letteratura alla scienza, dalla politica all’arte. Ma pur nel loro esilio politico, le donne hanno avuto un’importante occasione storica: quella di rigenerare il codice etico dell’umanità attraverso l’educazione dei figli. Anche questa opportunità, però, è stata in gran parte sciupata, poiché, nella stragrande maggioranza dei casi, le madri hanno preferito avallare nei figli la cultura maschile, tanto nei riguardi dei maschi che delle stesse femmine.

A partire dagli ultimi decenni, l’intero quadro dei rapporti donna-uomo si presenta per tanti aspetti cambiato.
Da quando c’è stata la svolta femminista sembra anzi che la subalternità femminile appartenga a una tradizione da tempo sepolta. A questo punto, va detto che il capitalismo contemporaneo sta aiutando le donne a recitare nella società un ruolo da protagoniste. L'Azienda, tra l’altro, si sta rivelando una vera e propria palestra politica. Il mondo del lavoro ha per di più permesso che tra uomini e donne si aprissero dei varchi di comunicazione extra-sessuale, laddove nel passato, anche recente, ogni incontro era contrassegnato da un interesse quasi esclusivamente erotico. Si assiste perciò al formarsi di comportamenti femminili diversi: in famiglia, quelli ancorati in buona misura alla logica storicizzata delle donne, nell’azienda, quelli assimilati dalla logica maschile. E questa tendenza emancipativa, pur presentando per le donne seri problemi di snaturamento, va comunque giudicata positivamente. La prima condizione del mutamento è infatti il mutamento stesso. Sicché, solo quando la donna rinnegherà la sua arcaica tolleranza, l’umanità potrà aprire altre strade, compresa quella dell’Utopia.
Probabilmente, ma è soltanto una previsione, ci saranno più femmine che maschi capaci di impegnarsi in un progetto di trasformazione radicale della vita, proprio perché le donne sono meno avvezze degli uomini alla pratica del sopruso. La classe operaia, al contrario, pur essendo una classe oppressa, nella maggioranza dei casi rimane pur sempre una classe maschile e quindi più incline alla sopraffazione.
Ma un progetto che presuma di essere sufficientemente utopico non può essere partorito solo da uomini o solo da donne. Quanto prima, perciò, la questione maschile, intesa come fenditura dentro l’eticità del maschio, dovrà essere messa all’ordine del giorno.



 


      § X.   Cristo e le donne

I
l Dott. Cristo ha tratto l’asse portante del suo punto di vista divino proprio dalla logica storicizzata delle donne.
Quell’invito, apparentemente rivoluzionario, a porgere l’altra guancia, non è stato forse tratto pari pari dalla loro pratica quotidiana?
E come non vedere in questa disponibilità femminile a tutto campo l’elemento neutro, interclassista e senza diaframmi, dell’amore cristiano?
Nessuno, comunque, prima di Lui, aveva mai attribuito al comportamento delle donne un valore politico tale da ricavarne una logica e una teoria sociale. Pur tuttavia il Dott. Cristo non ha mai parlato al femminile. Al centro del suo progetto c’è anzi il maschio, quale fulcro dell’autorappresentazione della specie. Con l’avvento del cristianesimo, in ogni caso, anche se la società è rimasta a dominio maschile, è invece divenuta femminile come proposta etica e spirituale. Le donne, in altri termini, hanno avuto in Cristo il portavoce maschile della loro logica. E con un’operazione di potente sublimazione, simile a quella che capovolge la forza del desiderio nella forma della rappresentazione, Egli ne ha ulteriormente rafforzato il ruolo subalterno. Che la Chiesa abbia poi avviato il processo di glorificazione di Maria fino ad attribuirle specifici compiti di redenzione e a proclamarla "Mater Ecclesiae", non implica affatto che abbia riconosciuto nella madre di Gesù il modello comportamentale e la propria fonte ideologica. 'Divinizzarla' ha significato solo trasformare una donna normale in una donna straordinaria, così da ribadire l’etica della tolleranza a partire proprio dall’indiscussa preminenza del maschio. Tutte le volte, d’altro canto, che gli uomini hanno tentato di proporre, nel sogno della poesia, il più alto modello di società dell’amore, han sempre finito per porre le donne a punto di riferimento più esemplare di quel sogno.
Mentre i poeti hanno tratto, di regola, ispirazione dalla donna amata, Cristo ha assunto la madre a modello. E la differenza non è marginale. L’amante è infatti la donna desiderata tutta per sé, la ninfa nuda e senza pudicizia; la madre, al contrario, è una figura oggettiva, vestita di castità, incarnazione di un concetto quasi universale di creazione e di dedizione.
E c’è anche un altro aspetto. Il Dr. Cristo è trasmigrato nell’ottica femminile della madre non da figlio ma da soggetto sociale, così da riuscire a inglobare, pur rimanendo maschio, il punto di vista delle donne tanto in quanto madri che in quanto mogli. Attraverso un processo di immedesimazione è, quindi, riuscito a interpretare l’universo femminile, da nessuno mai prima razionalizzato. Con l’idea della fratellanza universale, Cristo ha però elaborato un’utopia idealistica, basata sull’ingenua credenza che basti la forza dell’amore, come puro atto di volontà, per realizzare un corretto sistema di rapporti interumani. Ma una fratellanza che non preveda soggetti tutti autonomi e positivi non è propriamente una fratellanza. È solo un falso amore, o meglio una tregua nel conflitto di classe, che viene pagata, da parte di chi accetta di vivere misericordiosamente, con il prezzo della croce. E questa croce corrisponde esattamente all’espiazione cui sono piegate quotidianamente le donne.
Ecco che adesso appare chiara anche la ragione per cui il cristianesimo non ha messo in discussione la schiavitù. In realtà non c’è stata alcuna svista. Le donne, in quanto schiave dei maschi ma anche schiave d'amore, sembravano dimostrare che, all’interno di quel modello comportamentale, la schiavitù non impediva ‘l'amarsi l'un l'altro’. Ma era stato proprio il vincolo della prigionia che aveva determinato, nelle donne, la struttura logica della loro etica: l’amore della beata sofferenza.

Ma perché Cristo ha mentito?
È ovvio che, se Gesù avesse dichiarato di aver tratto dalle donne l’ispirazione della sua teoria, il suo messaggio non avrebbe sortito l’effetto che ha poi avuto nella storia. Solo una spiegazione del genere può giustificare la sua omissione. Non si vuole, comunque, aprire qui nessun secondo processo. Anzi, la divinizzazione della logica storicizzata delle donne è forse servita (venti secoli fa) a rendere l’umanità un po’ meno guerriera, poiché quelle favole su Dio e sugli uomini hanno avuto una funzione educatrice di gran lunga superiore a ogni altra forma o proposta di pensiero razionale. Ma il freno di quella mediazione è divenuto oggi dannoso, oltre che infruttuoso, giacché proprio l'unità degli opposti, proprio l'amare il nemico impedisce che si liberino energie in direzione dell’amore autentico.




      § XI.   Disimpegno politico e impegno ideologico

N

ella storia vi sono date (come il 1492, il 1789, il 1917) che segnano importanti mutamenti. Anche il ’68 è una di queste, ma se ne discosta per aver prodotto solo una lunga, magmatica e coinvolgente riflessione di massa.
In quel tempo, ogni teoria, ogni ideologia, laica o religiosa che fosse, fu messa in discussione, ogni questione riesaminata, con uno spessore e una partecipazione che non trovano riscontro in nessun altro periodo della storia. Fu come se quegli esploratori avessero provato a perlustrare nuovi territori, portandosi dentro l’unica certezza di non voler tornare nel porto di partenza. Il viaggio fu tuttavia senza approdo, dal momento che nessun paese era in grado di offrire ospitalità alla loro domanda politica. Sebbene quell’esperienza si sia chiusa, il suo riverbero tuttavia non si è ancora spento. E non solo perché i segni di una così particolare avventura sono indelebili, ma soprattutto perché insoffocabile rimane l’anelito da cui aveva preso l’abbrivio.
Nel ’68 si cominciò a credere – con trasporto quasi religioso, sia pure con mente assolutamente laica – all’esistenza di altre dimensioni del vivere (non certo nascoste nel sottosuolo o nel cielo), nelle quali i rapporti tra le persone potessero essere regolati con meccanismi completamente differenti da quelli sino ad allora sperimentati. Fu annullato il principio dell’intoccabilità e superato il muro della metafisica, quel muro cioè che impedisce lo sfondamento dei bisogni nella storia reale. E fu soppressa la distanza che separa l’umanità dall’idea di Dio, per tentare di realizzare la società dei felici.
Quell’evento, però, non ha prodotto la deflagrazione di nessuna società. Il capitalismo ha avuto, anzi, la capacità di far propri quei contenuti ‘rivoluzionari’ che non mettessero in pericolo la divisione della società in classi e la proprietà privata dei mezzi di produzione.
D’altro canto, simultaneamente alla critica dell’esistente e all’esplosione di nuovi bisogni, non era stato formulato alcun nuovo progetto. Certo, non tutti i superstiti di quella esperienza sono oggi portatori di ideali rivoluzionari, giacché parecchi han perduto la forza del credere. E non solo perché si sono dovuti piegare alle necessità contingenti, ma soprattutto perché, avendo cancellato la parte più radicale di quei bisogni, sono approdati (nel meno peggiore dei casi) a una visione riformista della società. Chi invece ha saputo conservare integra quella domanda politica ha preferito vivere in solitudine, piuttosto che rincorrere false chimere. Non ha senso, tuttavia, cristallizzare la propria vita politica in un’immagine-ricordo di quegli anni giovanili, se finalmente è possibile passare il testimone alla nuova generazione.

Proprio perché alla concezione dell’Utopia si contrappongono antichi vincoli etici, sedimentati nelle profondità delle menti, solo una rivoluzione generazionale potrà infatti favorire adesioni di massa a un progetto di così ampia portata. Sarebbe, comunque, riduttivo pensare che gli unici soggetti interessati al lavoro di ricerca sulla Società dell’Utopia appartengano alla generazione del ’68.
Ma in che modo dovrebbe funzionare questo nuovo tipo di impegno politico?
La figura del ricercatore di Utopia è innanzitutto caratterizzata dal disimpegno nei riguardi dell’attualità politica. E non tanto perché non esiste il vero partito rivoluzionario, quanto perché è venuto meno il ‘nesso’ che prima legava la tattica alla strategia. Non si tratta, quindi, di mettere in discussione la validità della quotidiana battaglia di opposizione, ma di distinguere nettamente la sua funzione difensiva (sostanzialmente sindacale) dal processo di costruzione dell’Utopia.
C’è di più. Si deve abbandonare quel disegno opportunistico che univa con convergenze strumentali classi diverse o sbandierava il vincolo della ‘solidarietà di classe’ per poi tentare operazioni di trasformismo. Né l’idea del governo delle sinistre né quella di chi ha fatto del tritolo la sua linea politica possono qui trovare il benché minimo avallo. È ovvio che dopo l’abbandono della logica e della strategia marxiane, e non essendoci alcuna montagna del Sinai su cui andare a leggere o ascoltare altre tavole laiche, la scrittura dei Nuovi Testi avrà funzione prioritaria in tutta la prima fase della nuova militanza. Nulla infatti è più importante dell’inventare e dello scrivere il Manifesto dell’Utopia: il solo che può proporre una nuova strategia del cominciamento, senza la quale ogni atto politico sarebbe fine a se stesso. Certo, è vero che il disimpegno dalla scena politica contemporanea il più delle volte fa ristagnare la riflessione e spegne l’interesse per le alternative all’esistente. Non ha senso, tuttavia, attivare il volano del movimentismo solo per riattizzare il fuoco dell’ideologia. Né è da sottovalutare il rischio di restare intrappolati in un monastero della ricerca, con la conseguenza, una volta usciti dalla clausura intellettuale, di ritrovarsi in un mondo modificato a tal punto da non garantire nemmeno il minimo livello di democrazia. Andranno perciò individuati obiettivi marginali, avendo cura di ribadir sempre, con la massima chiarezza, che essi non hanno alcun rapporto diretto con il Progetto dell’Utopia. Si possono menzionare, a tale riguardo, il controllo internazionale delle nascite (ma non della vita, come qualcuno fa finta di intendere), la salvaguardia delle libertà democratiche (come quelle di espressione e di associazione), la difesa sindacale nei rapporti di lavoro (per non essere schiacciati dalla disparità economica), la lotta all’inquinamento.
Probabilmente, per tutta la fase preliminare, la vita del militante non potrà perciò non subire un vero e proprio sdoppiamento. Tra l’attività diurna, fondata sul lavoro e quindi sullo scambio della compravendita (delle cose come delle persone), e quella notturna, dedicata al Progetto collettivo dell’Utopia. Chi pensasse, al contrario, di unificare le due vite attraverso uno stesso stile politico, non riuscirebbe a stare a galla di ‘giorno’ e avrebbe quindi una minore energia progettuale da riservare alla notte.

Nulla dell’attuale essere tra gli altri si può mai avvicinare, sia pure in termini approssimativi, ‘all'essere nell'Utopia’. E nulla può sanare questa contraddizione. Chi, ingenuo, tenterà di rimarginarla, ne uscirà con le ossa rotte. Non solo. Ma quand’anche il suo sforzo servisse a qualcosa, contribuirebbe solo a mistificare i termini del problema. A far credere, cioè, che tutto si possa risolvere con la buona volontà individuale.




      § XII.   La separazione antropologica

L
a classe rivoluzionaria dell’Utopia dovrà compiere un salto politico analogo a quello bio-evolutivo compiuto dall’uomo quando si è staccato dalle altre specie animali. 
Ma sulla base di quale ‘categoria’ si definiranno i nuovi soggetti rivoluzionari?
Identificare la classe rivoluzionaria come classe della mente è il modo forse più autentico per portare l’opzione politica sullo stesso terreno in cui germoglia l’elaborazione della domanda utopica. Ma definire «classe» l’aggregazione di chi incarna i nuovi bisogni ha senso solo in considerazione della forza d’urto che ancora questo termine conserva. È bene chiarire subito che alla classe della mente non appartiene affatto la categoria professionale degli intellettuali, che pensano in quanto pagati per pensare e la cui funzione sociale è inevitabilmente subalterna ai centri di potere.
La nuova razionalità consiste invece nel governo della sensibilità, che può appartenere a chiunque. La qualità della scelta utopica risiede infatti proprio nella candida dolcezza (tanto difficile da farsi). È la semplicità di tale razionalità a permettere di accogliere nella classe della mente anche i portatori di filosofia implicita, ma non quanti sono gonfi di informazione e vuoti, invece, di tensione utopica. Non si tratta tanto di rinunciare al sapere specializzato, quanto di scindere le potenzialità della mente dal suo uso professionale.

Chiunque voglia schierarsi tra i rivoluzionari dovrà prima di tutto sconfessare la classe di appartenenza, perché solo ‘tradendo’ potrà staccarsi definitivamente dal proprio ruolo storico nonché dagli aspetti regressivi della propria tradizione. Nessuna cultura o modello di classe (persino anticapitalistico) potrà quindi trasmigrare integralmente nella Società dell’Utopia, poiché si correrebbe il rischio di riportare il virus della vecchia logica dentro la nuova Storia. Non si stilerà, tra l’altro, nessun elenco di iscritti al popolo dei rivoluzionari per meriti acquisiti, giacché tale qualifica si guadagna solo mediante l’adesione al Progetto dell’Utopia, come atto di libera e consapevole scelta. Né si intende perseguire la strada della separazione manichea tra presunti cattivi e presunti buoni. Il codice etico oggi vigente è, infatti, anni luce lontano dalla concezione utopica. Coloro che lo rispettano possono tutt’al più aspirare a un mondo un po’ meno turpe, ma non certo aderire a un progetto di palingenesi totale.
È quindi più corretto definire la nuova classe rivoluzionaria come un blocco sociale nascosto, nel senso che verrà alla luce solo quando sarà concepita la linea politica che ne accoglierà la domanda. È un po’ come la storia della bussola. I Romani e i Greci, pur avendo intuito la proprietà magnetica della calamita, non capirono infatti che l’ago indicava sempre la stessa direzione. Saranno perciò i punti cardinali dell’Utopia a calamitare i rivoluzionari potenziali. Gli individui si staccheranno dalle famiglie e dalle classi di origine, per unirsi in una nuova aggregazione antropologicamente omogenea (ma non certo monolitica), che si qualificherà come una vera e propria nuova razza. L’uso di questo termine non deve però essere frainteso. Serve solo a chiarire emblematicamente la portata e il valore della rottura che si vuole proporre. La ‘superiorità’ e la ‘purezza’ della razza utopica non sottintendono minimamente l’idea di predominio. La separazione della specie umana nasce esclusivamente dalla consapevolezza che solo una distanza etica ed estetica può innescare la prima fase esecutiva del Progetto. È perciò un atto politicamente dovuto, anche se una riomogeneizzazione del genere umano è da auspicarsi. Quando e se matureranno le condizioni.
Se si identifica peraltro l’Utopia con la Società dell’Amore, non si può certo immaginare che tutti ne possano far parte, poiché non tutti sono sintonizzati su questa frequenza etica e politica. La proposta di selezione razziale si rende quindi necessaria per scindere gli elementi potenzialmente armonici da quelli totalmente disarmonici. Ed è chiaro che quando si parla di armonia si vuole intendere la disponibilità all’armonia, dato che sarebbe assurdo pretendere, qui e ora, l’abolizione dell’invidia, della gelosia o di altri sentimenti negativi, radicati da millenni nelle menti degli individui.
Del resto, anche alcune religioni, compresa quella cristiana, hanno adottato il criterio della divisione. Dal paradiso non sono forse esclusi tutti quelli che non ne sono ritenuti degni? Il Dio cristiano, nel suo infinito amore, compie in sostanza un vero e proprio atto di separazione postuma, ancorando per di più un destino infinito a un’esperienza di vita finita. Non si comprende, d’altra parte, per quale motivo si debba continuare a spendere la propria esistenza nella frustrazione della mediazione, se c’è la possibilità reale di iniziare a costruire un mondo di rapporti felici.
L’unità a tutti i costi esprime, difatti, quella condiscendenza alla mediocrità tipica degli individui irrisolti e speranzosi. Cosicché l’Eden si configura come il rovesciamento simbolico dell’incapacità di essere.




      § XIII.   La scissione territoriale

I
l problema della transizione ha avuto, nella tradizione marxista, una notevole centralità tematica. Il Progetto dell’Utopia prevede invece l’elaborazione di una strategia che approdi direttamente a una società compiuta. In questo senso lo spazio territoriale si pone come una delle pre-condizioni essenziali per la sua realizzazione. La geografia politica del Pianeta dovrà, quindi, subire un mutamento epocale, in termini di divisione internazionale tra modelli sociali. Così che, separatamente dalla società di mercato, l’Utopia possa realizzare il suo giardino delle delizie. Può sembrare anacronistico rialzare proprio adesso dei muri. Tuttavia quello di Berlino, tanto per fare l’esempio più emblematico, non separava che due società sostanzialmente omogenee. È vero che quelle società differivano per un minore o maggiore statalismo, una maggiore o minore ricchezza, una maggiore o minore libertà, ma è altrettanto vero che si reggevano entrambe sulla compravendita, sulla famiglia nucleare a dominio maschile, sulla divisione in classi, oltre che per sesso e potere. La scissione produrrà, comunque, sia un nuovo internazionalismo fondato sulla unicità territoriale sia il superamento dei classici (e asfittici) schemi della transizione nazionale.

Nell’imbuto della politica statuale, qualsiasi progetto di qualità è infatti bloccato, più ancora che dalla maggioranza numerica, dal vincolo unitario che lega tutta la popolazione. Ma quando si sarà unificato in «un'etnia inter-etnica», l’insieme della ‘popolazione internazionale dell’Utopia’ acquisirà il diritto politico di appropriarsi dello spazio che gli è indispensabile.
La rivendicazione territoriale sarà comunque solo qualitativa. Nel senso che non si tenterà di far rinascere nessuna nazione del passato, né, animati da spirito messianico, si cercherà di far ritorno in qualche terra promessa. Si tratterà di una semplice occupazione politica, senza alcun titolo di legittimità giuridica, ma anche senza avocarsi il diritto di sottomettere altri popoli.
È evidente, tuttavia, che non sarà sufficiente spiegare alla gente che l’Utopia rappresenta la migliore delle società possibili perché le venga riconosciuta la sovranità su una parte della terra. Si faccia avanti, dunque, chi abbia da proporre delle soluzioni che consentano di approdare pacificamente alla Nuova Era.




      § XIV.   La società della domanda

S
e si pensa a una società senza la compravendita, ci si trova di fronte a un vuoto assoluto. E non solo perché la storia finora non ha mostrato che società fondate sullo scambio, ma anche perché, nonostante le intuizioni di Marx abbiano "diffuso chiara luce solare sul campo dell’economia", le successive ricerche non hanno prodotto alcuna idea valida per una società che funzioni senza la moneta e al tempo stesso valorizzi al massimo la domanda individuale. Alcune comunità cristiane, sulla base della condizione di privilegio accordata alla povertà, hanno praticato sì il distacco dalla ricchezza, ma non abolito il denaro. La trovata dell’elemosina-donazione non ha insomma alcuna portata alternativa e globale, in quanto quel tipo di comunità ha comunque bisogno di una seconda società da cui attingere. E anche qui, per inciso, si trova rispecchiata la logica storicizzata delle donne: con un maschio (simboleggiato dalla società finanziaria) che elargisce le risorse per la gestione dell’economia domestica e una comunità (madri e figli) che ne fruisce. A questo punto è d’obbligo, prima di entrare nel merito del Progetto, precisare che la scommessa dell’Utopia risulterà vincente solo se si riuscirà a inventare un circuito economico capace di soddisfare la domanda di ciascuno in ‘misura superiore non solo rispetto a quanto consenta il sistema capitalistico, ma anche a quanto la borghesia sia in grado di desiderare per se stessa.

Che i soldi possano essere aboliti non è una follia. E lo si può dimostrare partendo dalla considerazione che la moneta, sia essa palpabile o astratta, non sta dentro la sostanza della merce né dentro l’energia del lavoro. Il danaro, quindi, è sì la fonte energetica che muove la produzione, ma in realtà ciò che simboleggia è solo un tipo di organizzazione mentale.
La scomparsa della moneta come mezzo e valore finanziario non vuol dire tuttavia che si butteranno a mare le scienze del lavoro e della produzione. Nel senso che, pur venendo meno la figura dell’imprenditore, non verranno perdute né l’intraprendenza né la managerialità. Che però non saranno legate al bisogno di dominare, bensì a quello di realizzarsi. E sarà proprio questa sana finalità il propellente che spingerà ognuno verso il massimo dell’impegno.
L’Utopia può essere anche definita come la Società della Domanda, proprio perché dalla domanda, e non dall’offerta, ha realmente inizio il processo produttivo. Un’offerta che non trova corrispondenza nella domanda finisce difatti per azzerarsi. Mentre una domanda rimane, in assenza di offerta, solo temporaneamente congelata, senza per questo annullarsi.
Il mercato, d’altronde, come area di confluenza di offerta e domanda, ha motivo di esserci solo fino a quando non si realizza la coincidenza tra i due termini. La centralità della domanda non costituisce, comunque, una novità esclusiva dell’Utopia. Basta ricordare l’economia feudale o, in riferimento al capitalismo, l’istituto dell’appalto. L’appalto delle opere pubbliche, difatti, parte proprio dalla domanda, poiché la commessa del lavoro, sia in tempo di guerra che di pace, è assicurata dallo Stato.
È ovvio che quando si parla di domanda come ‘input’ alla creazione del prodotto, si può correre il rischio di evocare lo spettro della pianificazione, che ha rappresentato il filo conduttore della società sovietica. Ma dovrebbe essere superfluo ribadire che non c’è alcuna somiglianza, neanche lontana, tra la Società della Domanda e quel sistema economico, che programmava e pianificava la dittatura sui bisogni, comprimendoli fino al punto di identificarli con le necessità minime.
Per cominciare a dare una prima immagine della libera acquisizione dei beni, si può pensare a un frigorifero da cui ognuno attinga liberamente a seconda del proprio appetito, senza nulla pagare e senza neanche dover bilanciare i propri bisogni con quelli di altri fruitori. Ma se ogni merce ha un tempo di produzione diverso, com’è possibile toglierle forza di gravità economica, eliminare cioè il valore di scambio?
A questa domanda sarebbe impossibile rispondere se si partisse dagli elementi che determinano il conto economico della singola merce. Per annullare la differenza di valore, si deve invece partire dalla globalità, cioè da tutta la merce prodotta e dividerla per la somma di tutta la domanda.
Le merci avranno uno stesso valore solo quando, realizzatisi tutti i beni cui aspirava la domanda, la divisione darà come risultato 1.
Nell’Utopia, allora, la somma di tutto il lavoro dovrà soddisfare in pieno la domanda dell’intero corpo sociale. Per cui, se tutti potranno avere tutto, il denaro non avrà più ragione di esistere.
Va detto comunque che il poter avere tutto non coincide col possedere materialmente tutto, ma con il sapere di poter avere ciò che si desidera, nelle condizioni, beninteso, dello sviluppo compatibile. Ma mentre nel passato il «poter avere tutto» apparteneva al regno dell’impossibile, oggi è dentro le potenzialità dello stesso capitalismo. Che, però, nonostante sembri voler soddisfare una larghissima domanda, ha il limite intrinseco di essere condizionato da un lato dalla differente capacità di acquisto dei vari individui e dall’altro dalla differente capacità di produrre profitto di ciascuna merce. E ciò è vero non solo per i beni che sono stati già prodotti, ma ancor più per quelli non ancora realizzati. Se difatti a una serie di bisogni, pur presenti come domanda, non corrisponde un’offerta sul mercato, è perché mancano le condizioni economiche atte a determinarla. Oggi, d’altro canto, la distanza che separa l’offerta dalla domanda si è accorciata di molto, grazie anche ai nuovi sistemi di indagine-controllo del mercato. L’offerta, in altri termini, è come misurata a vista. L’assottigliamento del margine tra offerta e domanda non dà luogo però, neanche approssimativamente, alla Società della Domanda, ma produce solo una migliore programmazione dell’offerta, che adegua, in tempo reale, la produzione sulla linea degli indici di vendita.
In che modo allora sarà possibile costruire case e mezzi di trasporto, produrre il cibo e quanto altro abbisogni, se si eliminerà il costo di produzione e quindi il denaro?
C’è da dire, intanto, che già esiste, nell’attuale sistema economico, un processo di ‘socializzazione’ che non viene mediato dal mercato. Dentro ogni azienda, grande o piccola che sia, nessun ufficio o reparto paga infatti il servizio o la merce che riceve da altre unità produttive interne. Ciò tuttavia non implica che qualora fosse possibile realizzare l’Azienda Capitalistica Globale si passerebbe automaticamente alla Società della Domanda.

Ma nella Società dell’Utopia, come potrà organizzarsi, tanto per fare un esempio, la produzione dell’abbigliamento?
Intanto, la richiesta si formerà nei laboratori di creatività. Dove, sulla base delle indicazioni dell’utente, lo stilista disegnerà il modello, che sarà frutto dell’intreccio complementare tra domanda e capacità ideative. L’industria entrerà in gioco in un secondo momento. Quando gli ordinativi trasmessi dal laboratorio di progettazione si dovranno trasformare in merce. Ciò non vuol dire che la lavorazione si attiverà soltanto dopo la formulazione della domanda o con la lentezza tipica del metodo artigianale: il processo industriale integrato e automatizzato permette d’altronde, già oggi, non solo di fabbricare velocemente ma anche di individualizzare i prodotti a misura di ogni utente. L’idea del vestito andrà così in macchina come la stampa di un giornale, e il modello esclusivo tornerà al committente sotto forma di valore d’uso. La distribuzione quindi non sarà più identificabile con la vendita. La merce sarà semplicemente consegnata. Dopodiché diverrà di proprietà di chi l’ha richiesta. Poiché l’Utopia, proponendosi l’esaltazione dell’individuo, non può non sviluppare al massimo la ricchezza di ogni mondo privato. I negozi odierni saranno quindi aboliti e le vetrine adibite a rassegna permanente di tutto ciò che è stato realizzato. Mentre la pubblicità non servirà a promuovere le vendite, bensì a produrre l’affinamento del gusto. Nonché a suscitare desideri vivificanti e non consumistici. Sarà pertanto istituito un vero e proprio osservatorio della domanda, cioè un centro di ricerca capace di leggerne la tendenza al fine di ottimizzare la produzione, anche in termini di risposta anticipata ai bisogni.

Si deve, comunque, aggiungere ancora qualcosa sul momento della produzione. Nella società di mercato la grande fabbrica, prima ancora di essere il luogo dove si realizza la merce, è anche la sede dell’Ufficio Studi & Progetti, che ha la funzione di pensare, decidere e ideare i nuovi prodotti. Nella Società dell’Utopia, come si è visto, la sede della progettazione sarà del tutto autonoma dall’industria, che manterrà solo la funzione tecnica e professionale, mentre verrà deprivata del potere, poiché la scelta politica sarà dislocata tutta nel momento della domanda. La fabbrica, garantendo la massima flessibilità produttiva, sarà così veramente al servizio del corpo sociale. E dentro questo nuovo ordine, lo stesso Stato si dissolverà.
Ora, la riscrittura di tutte le funzioni sociali prevede anche una diversa attribuzione delle mansioni lavorative, che diverranno più complesse col crescere dell’età: una scala mobile dei lavori che avanzi lungo la scala mobile dell’età. Così che tutti potranno affrontare, in maniera stimolante, i vari mondi del lavoro e nessuno si sentirà più privilegiato o emarginato. D’altro canto questo tipo di organizzazione servirà anche a impedire che, sotto mentite spoglie, si possa riprodurre la divisione in classi della società. La scomparsa della contrapposizione tra titolari di mezzi di produzione e salariati non basta infatti a impedire il permanere di altre discriminazioni: tra lavoro intellettuale e manuale, tra lavoro semplice e complesso, tra funzione direttiva ed esecutiva. Altro problema è poi quello della garanzia. Quando oggi avviene la chiusura di un’azienda, si assiste naturalmente alla perdita del salario, oltre che del profitto. Questo dramma, nella Società dell’Utopia, non si ripeterà. Dagli attuali binomi economici (... occupazione-salario, salario-acquisti, acquisti-vendite...) si passerà, nell’Utopia, a un trinomio indipendente (domanda-lavoro-prodotto), per cui, man mano che il progresso tecnologico richiederà una minore presenza umana, la riduzione generalizzata del tempo di lavoro non comporterà alcuna forma di povertà, ma solo una maggior quantità di tempo libero. Ciò significa che, quando si arriverà all’appuntamento che conclude l’Età del Lavoro, non verrà meno la sicurezza che tutti possano continuare ad avere tutto.
Il capitalismo, in realtà, non potendo dare certezze (di salario, di pensione, ma neanche di profitto), ha manipolato e strumentalizzato il concetto di ‘garanzia’ ponendolo in simbiosi con quello di assistenza. È ovvio, però, che la mancanza di sicurezza è connaturata alla società di mercato, che di fatto non può permettersi di tutelare nessuno, borghesi compresi.
L’Utopia, viceversa, è un sistema costruito sulla garanzia. Che non è affatto l’edizione riveduta e corretta del sussidio, bensì la certezza, per tutti, di aver diritto alla più alta qualità della vita.




      § XV.   Le coordinate spirituali dell’Utopia

L’
opzione spirituale dell’Utopia si distanzia radicalmente dalla proposta cristiana, che non ha consentito di realizzare autentici rapporti di reciprocità. Non potendo divenire il fine di se stesso, l’amore era così divenuto il ‘mezzo’ per effettuare una sintesi della onnipresente contraddizione. E questa funzione subordinata ha inciso in maniera determinante sul suo contenuto, poiché non solo gli è stato impedito di uscire dal cerchio infernale del dolore, ma anche di volare oltre i confini del piacere. La responsabilità di aver bloccato il salto in una nuova dimensione va quindi in larga misura addebitata proprio a quel falso amore che, configurandosi come l’unica forza capace di contrastare il male, ha eclissato il bisogno di cambiare il modello di società. Ma se l’amore, nella proposta cristiana, si è risolto in compassione misericordiosa, l’ideologia comunista lo ha invece completamente rimosso. E quel colossale errore politico è scaturito dal non aver compreso che l’esistenza è fatta di materia ed energia, per cui l’elemento spirituale è parte integrante della vita materiale. Dunque, lì dove, come nel cristianesimo, l’amore c’è stato, è stato funzione dipendente dalla contraddizione; lì dove (come nel comunismo) avrebbe potuto essere finalmente libero e gioioso, è stato rifiutato. È proprio tanto complicata e incomprensibile, a volte, la storia umana!

L’amore è il vero protagonista politico della Società dell’Utopia. Ma può esserlo veramente solo a partire da un bilaterale e appassionato piacere, che renda ‘conveniente’ lo slancio amoroso, in modo che l’addizione di tanti legami faccia crescere la somma del godimento comune. Il concetto utopico di altruismo collettivo si configura infatti come l’intreccio gioioso dei benefici individuali procurati dalla congiura dell’amore. Ribaltando così la mitica figura del santo, che ha invece bisogno dello scenario della violenza o della tribolazione per potersi santificare. Si tratta, in altri termini, di trasfigurare tanto l’altruismo, liberandolo dal significato di donazione gratuita e non corrisposta, quanto l’egoismo, eliminandone l’aspetto di bieca appropriazione privatistica, incurante del piacere dell’altro. Le coordinate in cui si inseriranno i contenuti nuovi e imprevedibili dell’Utopia saranno perciò la percezione acuta dei propri bisogni e la consapevolezza che la condizione per soddisfarli è un mondo in cui tutti li soddisfino pienamente. Così che l’ebbrezza del piacere scateni la giostra dei sentimenti e l’orgia della gioia istighi l’irrefrenabilità dei desideri.

Non basta, comunque, cambiare il meccanismo tecnico della società perché, quasi per incanto, tutte le donne e tutti gli uomini vivano tra loro in spiritualità amorosa.
Il capitalismo, tra l’altro, potrebbe in futuro assumere forme simili alla società dell’Utopia. La qualità dell’amore sarà, allora, l’unico criterio che consentirà di coglierne la diversità. È tuttavia sempre possibile, anche nella Società dell’Utopia, l’insorgere di qualche contrasto. Cosa succederebbe allora se, manifestatosi un caso di disonestà, si fosse costretti a prendere atto, dopo un serio tentativo di recupero, della definitiva degenerazione di un individuo?
Non essendoci più né la detenzione né altre misure restrittive, l’unico provvedimento possibile consisterebbe nell’espulsione del soggetto cancerogeno. E praticare il Foglio di Via si renderà allora necessario soprattutto per salvaguardare coloro che abiteranno le terre utopiche. Poiché l’assenza di amore non può certo convivere con la saggezza e con la felicità. Che questi malati incurabili vadano a vivere con gli altri malati e che l’Utopia accolga solo gli esaltati fanatici dell’amore!




      § XVI.   La mobilità della coppia

P
er impostare in termini nuovi le relazioni di coppia, c’è bisogno di scomporre l’amore in spicchi indipendenti e poi disporli a cerchio, da quello solo fisico a quello solo mentale. Ciò implica che ogni qual volta venga soddisfatta, nella consensualità, la condizione del piacere positivo, ogni spicchio possa essere assunto come una cellula dell’amore, autonoma e definita nella sua interezza. E che, venendo meno l’immobilità dei rapporti, si aprano le porte alla mobilità della coppia. Da non considerare come un mero passaggio dalla fedeltà alla lealtà, bensì come possibilità codificata che si sviluppino tante e proficue storie d’amore, così che ciascuno possa stancarsi di godimento. In tal modo la mobilità si caratterizzerà come una sorta di concorrenzialità romantica che muoverà ciascuno alla ricerca della massima passionalità.
Il rivale, difatti, piuttosto che essere considerato un antagonista, andrà contemplato come figura umana più elevata da emulare. Tra l’altro, questa corsa all’effervescenza vitalistica dell’amore dovrebbe determinare tanto una crescita delle proprie capacità amorose quanto un rafforzamento del legame con le stesse persone amate.
È ovvio che oggi un discorso del genere non solo è impossibile da praticare, ma a volte anche scomodo da accettare. Soprattutto da parte dei 'patrioti' della famiglia, o di chi vuole immobili le donne e mobili gli uomini. Ma la frontiera antropologica dell’Utopia può essere forse rappresentata meglio dalla mitica figura dell’androgino, cioè dal potenziamento, tanto nel maschio quanto nella donna, di sensibilità e razionalità, di accoglienza e progettualità. Senza, però, che siano depotenziati nell’uomo la prorompenza apollinea della virilità e nella donna il fascino allusivo e misterioso della femminilità.
Nella Società dell’Utopia, quindi, si dovrà realizzare il passaggio dalla sacralità del matrimonio alla sacralità dell'amore. Capovolgendo l’ottica dei comandamenti cristiani, che considera alcuni ‘atti d’amore’ come dei veri e propri ‘reati d’amore’. Si pensi, ad esempio, al settimo comandamento, che vieta di "desiderare la donna d'altri". Il divieto ha senso, infatti, soltanto in una società in cui le donne sono ritenute proprietà privata dei maschi, oltre che creature prive di desiderio. Chi si appropria della donna di un altro mette quindi a repentaglio il patto di salvaguardia tra i maschi, che pone il veto sul libero desiderio dell’amore. D’altro canto, l’attuale liberalizzazione della tentazione dell'amore è una falsa soluzione, non solo perché non scalfisce minimamente il principio della proprietà privata delle persone, ma anche perché spesso non fa che sostituire la relazione monogamica con una molteplicità di rapporti inautentici.

Ma come si può armonizzare la mobilità amorosa con l’esigenza di garantire un profondo rapporto affettivo tra genitori e figli?
Questa domanda, come tante altre, resta, per il momento, senza risposta. È certo, comunque, che si debba escludere la separazione tra genitori e figli, poiché il diaframma tra sacralità della famiglia e sacralità dell’amore non sta nella differenza tra una famiglia a proprietà privata e una fantomatica famiglia a proprietà pubblica, bensì in un meccanismo che garantisca un legame libero e affettuoso tra i suoi componenti. E neanche si può proporre una gestione collettiva dei figli, poiché la solidità psicologica dei bambini si costruisce soprattutto attraverso un rapporto individualizzato, che passa anche per i vari gradi dell’accudimento. Occorre però disintegrare quel rapporto di trasmissione che vede i figli crescere e formarsi come fotocopie culturali dei genitori.
L’attuale richiesta di professionalità sembra infatti risparmiare soltanto il mestiere di genitori, spesso ancorato a cognizioni tradizionali. E la ragione di questo strano arcaismo risiede, forse, nella paura che una pedagogia su basi scientifiche possa far saltare quella catena di congiunzioni culturali che favorisce il perpetuarsi della società di classe. Il problema della formazione va affrontato, perciò, anche nella sua specificità professionale e in un suo ambito autonomo. Parlare di scienza dell’educazione è comunque difficilissimo, specie se la si intende come lo strumento per eccellenza della grande politica. Tanto per cominciare, la psicoanalisi e la psicopedagogia dovranno scomparire, quanto meno come approcci correttivi.

Nell’Utopia, invece, sarà proposto al bambino un codice positivo: un modello che gli indichi cosa e come fare e non cosa è vietato fare. Un codice imperniato su un concetto di sacro che divinizzi la pienezza della vita.
Questo non significa che non ci saranno più devianze comportamentali, ma che si potrà intervenire non appena si verificherà uno slittamento fuori dal tracciato. E ciò consentirà di sanare l’errore prima che diventi ferita o turba caratteriale. Giacché l’errore che si supera subito è un errore che non lascia tracce.




      § XVII.   L’infrastruttura immobiliare

N
ello spazio territoriale dell’Utopia tutto il vecchio edificato dovrà essere demolito. E non solo perché inadeguato alle nuove configurazioni che assumerà la vita sociale, ma anche perché l’eventuale adattamento alle strutture architettoniche preesistenti finirebbe per impedire al modello utopico di esprimere con pienezza la sua forza seduttiva. Si immagini, dunque, la nuova sede abitativa come una sorta di residence a dieci stelle. Non si pensi, però, alle forme, ai volumi e ai colori degli attuali involucri immobiliari, né si pensi a una mera trasposizione dei villaggi turistici in un contesto urbano, poiché in tali complessi i ruoli familiari, pur venendo meno la coazione del lavoro, restano sostanzialmente immutati. Nel residence utopico, invece, la figura della casalinga scomparirà e l’amministrazione domestica sarà gestita da aziende di servizi.
L’ambiente-cucina verrà quindi adibito a officina del vitto solo quando se ne avrà piacere. Mentre abitualmente la festosa cerimonia del cibo avrà luogo in raffinati ambienti, dove la varietà e l’alta qualità delle pietanze si coniugherà con un’atmosfera raccolta e rigenerante, simile a quella che si respira all’interno di un chiostro. Dalla dimensione intimistica del pranzo familiare si passerà così a una gioiosa ritualità sociale. Naturalmente anche gli altri ambienti saranno ridisegnati. La camera da letto è oggi destinata, ad esempio, tanto alla funzione biologica del sonno-riposo quanto a quella edonistica dell’amore. Si potranno invece creare, per le due funzioni, due spazi diversamente organizzati. La ‘sala dell'amore’ sarà così un ambiente predisposto al soddisfacimento dell’erotismo. In modo che la separazione tra il dormire e l’amare, tra la staticità orizzontale del riposo e la multiformità del rapporto sessuale arricchisca, per quote di valore aggiunto, ogni specifica espressione dell’amore.
I complessi immobiliari saranno dimensionati in modo da non ostacolare né la fluidità né l’efficienza dell’intera organizzazione. Si eviterà perciò di costituire comunità circoscritte (in piccoli aggregati) o masse anonime (in casermoni). La Città dell’Utopia non tollera infatti di essere parcellizzata in isole comunitarie. Ogni suddivisione in gruppi chiusi finirebbe infatti per arrugginire la qualità dei rapporti, poiché innescherebbe inevitabilmente dei meccanismi di interazione tanto rigidi e ripetitivi da apparire immodificabili. Né si vuole riesumare il concetto di casa comune, poiché la socializzazione è intesa qui non come comunanza forzata bensì come struttura di servizio e dimensione spirituale.
Ma la vera ‘casa’ dell’individuo utopico sarà lo spazio sociale della Città, che assomiglierà a un policentro aperto ventiquattrore su ventiquattro.
Forse questo scenario può addirittura suggerire la maniera più genuina per uscire dalla emotività catodica della televisione ed entrare, invece, in una sensibilità calda, intensa e diretta. Lo zapping consisterà allora nell’attraversamento dei diversi luoghi cittadini, per partecipare da artefici e da commensali al sacro banchetto della creatività. È in quegli spazi che si realizzerà la vera ricchezza del bisogno sociale, poiché nel tempo libero, e non più in quello del lavoro, gli individui troveranno la pienezza del proprio essere.
Va previsto poi, nella nuova architettura alberghiera, anche un diverso spazio per i figli, che si emanciperanno dal vincolo privatistico della famiglia e si rapporteranno ai genitori attraverso un articolato sistema di appuntamenti sociali. Verrà perciò edificata per i bambini una vera e propria città della gioia, dove il gioco sarà praticato come conoscenza e la conoscenza come gioco. E dove potranno nascere e fiorire le prime amicizie, in una circolarità di rapporti che favorirà la mutazione antropologica nel segno dell’amore non esclusivo.
Nelle Città dell’Utopia anche l’uso dell’automobile potrà essere eliminato. Se non altro perché, nell’ambito di un territorio circoscritto, è possibile adottare un diverso sistema di movimentazione-trasferimento che abolisca tanto il problema del parcheggio quanto quello dell’inquinamento. Tale sistema funzionerà a energia elettrica e unirà tutti i punti della città, così da personalizzare i tragitti e insieme azzerare i tempi di attesa. Ogni veicolo, infatti, girerà automaticamente e continuamente (anche quando non ci sono passeggeri) lungo il circuito, alla ricerca di nuove prenotazioni, o, in alternativa, si attesterà nelle aree di sosta più vicine all’ondata della domanda prevista o richiesta.
Il compito di forgiare i nuovi involucri immobiliari non potrà essere assunto dai soli architetti organici, in quanto anche il problema dello stile è essenzialmente politico e come tale non è esclusivo di alcun ruolo professionale.
Non a caso la maestosità e l'imponenza delle opere architettoniche antiche, sacre o profane che fossero, nasceva dalla capacità di alcuni esponenti delle passate classi dominanti di coniugare un gusto raffinato a una volontà smisurata di rappresentare la propria potenza. Si dovrà quindi tornare a operare in quell’ordine di grandezza, inventando però una fastosità che abbia la capacità di avvolgere e non di dominare. E che riesca a superare la forma e il contenuto dell’arte monumentale, abolendo ogni spigolosità e utilizzando unicamente la curva del concavo per racchiudere lo spazio e la curva del convesso per penetrarlo. Quest’arte avvolgente, nello sfarzo degli ornamenti e dei colori, dovrà manifestarsi in ogni aspetto del reale, dall’oggetto più complesso a quello più banale, così che tutto l’ambiente diventi un vero ‘giardino delle delizie.

Dovrebbe essere superfluo aggiungere che i previsti piani di demolizione non riguarderanno né l’arte delle epoche precedenti (compresa la grande architettura) né l’archeologia.
Custodirle e averne cura sarà anzi uno dei compiti più altamente religiosi delle generazioni utopiane. Ma la frequentazione del passato avrà pure la valenza vitalistica della sfida. Poiché l’arte dell’Utopia dovrà trovare una dimensione che trascenda anche le più raffinate sublimazioni del dramma.




      § XVIII.   Sulla democrazia Utopica

L
a storia recente sembra aver codificato che senza il Parlamento non può esservi esercizio della sovranità popolare e che senza i Partiti non può esservi libertà politica, bensì solo totalitarismo, di destra o di sinistra che sia. Per fortuna le ‘leggi’ della storia non possono impedire di concepire una forma di democrazia più avanzata di quella borghese, tale che sia in grado di abolire qualsiasi tipo di delega.
Il vero 'obiettivo' è quindi riuscire a progettare un meccanismo grazie al quale tutti, quotidianamente, possano proporre, discutere, scegliere e votare, in modo che sia l’intera popolazione a costituire il parlamento. Evitando però di scadere in un assemblearismo inconcludente, tale da far preferire, sotto l’aspetto della funzionalità, il più ‘ordinato’ sistema della delega.
Occorrerà allora strutturare il sistema operativo di tale meccanismo in modo da renderlo un efficiente strumento di partecipazione, evitando tuttavia che la gestione di tale organizzazione diventi, sotto mentite spoglie, un centro di potere politico. Tra gli strumenti del confronto, la televisione, e in particolare l’uso del multi-quadro, potrà avere una funzione importante. Ogni casa dovrà quindi possedere la stanza del Parlamento, che si avvarrà di circuiti paralleli interattivi.
La società di mercato, in una fase più evoluta e con una più robusta cultura interclassista, potrebbe benissimo aderire al sistema della teledemocrazia, sostituendo con le maggioranze di massa le maggioranze parlamentari di oggi. Ma la classe dominante ha tuttora interesse a lasciare la gestione della più grossa azienda nazionale, cioè il Bilancio dello Stato, nelle mani di un personale ben navigato nell’arte della manipolazione del consenso.

L’aspetto rivoluzionario della democrazia utopica non consiste perciò nell’innovazione tecnica (nel telecomando del voto), bensì nell’attribuire a ogni individuo il potere di decidere su tutto. La democrazia elettronica rappresenterà però solo uno dei passaggi della democrazia diretta, poiché il vero confronto politico dovrà partire sempre dal marciapiede. È previsto, in aggiunta, un pullulare di salotti ideologici, che rappresenteranno la più importante struttura di elaborazione delle idee. E in quelle sedi si svilupperà una dialettica non più legata alla gestione degli affari e quindi non più costretta a ricorrere agli inganni che oggi servono a travestire con i sofismi della politica la nuda verità dei rapporti di forza. Nella Società dell’Utopia il dibattito sarà così ampio e trasparente da oscillare incessantemente in tutte le direzioni. Non potrà quindi neanche lontanamente paragonarsi al ‘monolitismo’ di un partito né al mero pluripartitismo. E come le attuali forze politiche son tutte dentro l’ideologia del Mercato, così la libertà e il pluralismo dell’Utopia non sono concepibili se non dentro la Società della Domanda, dentro la socializzazione dei mezzi di produzione, dentro la discordante armonia della nuova spiritualità dell’amore.

Nella fase di transizione alla Nuova Società sarà comunque necessario costituire il Partito dell’Utopia, poiché senza il suo alveo la fiumana della rivoluzione rischierebbe di disperdersi e di non sfociare mai nel mare della Storia. Dopo di che ne è previsto l’automatico scioglimento.
Vanno chiarite però, a tale riguardo, un paio di cose. Prima di tutto, che la fase della transizione è contemplata soltanto all’interno dell’attuale società. In secondo luogo, che per il Partito dell’Utopia occorre inventare di sana pianta (poiché forma e strategia politica non sono scindibili) una struttura inedita che, tra l’altro, renda obsoleto il problema del rapporto avanguardia-masse. Lo stile del nuovo Partito, che sarà formato probabilmente da tutti segretari, potrà così prefigurarsi come una prima prova d’orchestra della futura democrazia. Anche se la storia della transizione sarà ovviamente profondamente diversa dalla Storia dell’Utopia. Pubblicamente e alla luce del giorno, quando i tempi saranno maturi, si deciderà allora anche la data e l’ora in cui i nuovi attori sociali daranno inizio al nuovo spettacolo della Storia.




      § XIX.   Per la biblioteca dell’Utopia

T
essere la trama della Società dell’Utopia sarà qualcosa di molto faticoso. Sarà peggio che zappar la terra.
Sicuramente non potrà essere il prodotto dell’idea (anche se geniale) di un singolo pensatore. E non solo perché l’Utopia è la più radicale inversione di rotta della storia dell’umanità, e quindi non una semplice variante di un sistema già esistente, ma soprattutto perché implica la riscrittura dell’intera enciclopedia sociale. Sarà essenziale allora organizzare una rete di ricerca collettiva costituita da tante sedi di elaborazione politica, e che si avvalga di strumenti interattivi a connessione dedicata, così da consentire a tutti coloro che parteciperanno al Progetto il massimo livello possibile di collaborazione e confronto. E quando ogni cosa assumerà contorni più chiari, si potrà a quel punto, ma soltanto a quel punto, premere l’interruttore della rivoluzione. Ma non sarà come la ‘scintilla’ di Lenin, giacché quell’immagine rimanda più a dei fuochisti piromani che non a dei ‘muratori’ laureandi in ingegneria sociale.

La ricerca non contempla naturalmente né docenti né studenti, né vecchi saggigiovani ingenui, bensì un gruppo internazionale di pensatori impegnati a ideare la Società dell’Utopia, arricchendo o respingendo, tagliando o ricucendo tutte le indicazioni che saranno poste sul tavolo della discussione. Ma non necessariamente si dovrà lavorare tutti in équipe, poiché l’idea originale scaturisce spesso dalla concentrazione interiore, che richiede sempre un certo grado di isolamento. Né i santoni della cultura né tanto meno i militanti dei partiti, compresi quelli di sinistra, potranno essere accolti tra le file dei ricercatori. Il pentitismo sarà tuttavia ammesso, non però come atto di confessione, bensì di riflessione. Del resto, c’è forse in giro qualche non-pentito?
Si dovranno costruire, prima di tutto, gli ‘scaffali’ della Biblioteca, cioè l’inventario e la classificazione dei temi della ricerca. Quindi si definirà la sotto-capitolazione degli argomenti, ciascuno con i suoi titoli e i suoi indici, che andranno poi riempiti in modo sistematico e approfondito. Ma non tutto il lavoro potrà procedere secondo una preliminare e rigida ipotesi generale, giacché l’operazione prevede anche la possibilità di derive del tutto impensate. A ogni quesito si dovranno dare nuove risposte o congelare le non-risposte, senza mai cadere nel vizio dello schematismo, che non troverebbe, d’altronde, nessuna giustificazione nel sottinteso, poiché nulla dovrà essere più dato per scontato. Ogni testo editato rifletterà così il livello di crescita della ricerca. Ma senza l’obbligo accademico di mediare le posizioni divergenti o di offrire una sintesi di quanto è stato prodotto sull’argomento.

Si riconoscono come parte integrante della ricerca le sperimentazioni di vere e proprie Isole di Utopia vissute in prima persona. Anche se i campi semantici delle parole ‘isola’ e ‘utopia’ sono così marcati da poter indurre alla errata conclusione che si voglia chiudere l’Utopia in un’isola.
L’Isola ha perciò solo il valore di prova di laboratorio e la funzione di cantiere sperimentale. Va considerata cioè come uno tra i possibili strumenti di verifica, pur con tutti i rischi di approssimazione o addirittura di divaricazione tra la dimensione microscopica e quella macroscopica. Un altro strumento potrà essere la cibernetica. E, specificamente, la nuova frontiera della realtà virtuale, che simula situazioni e luoghi immaginari.
Bisognerà certo accostarsi con cautela a tutti questi strumenti, senza però assumere atteggiamenti di sufficienza nei confronti della loro parzialità o banalità. Anzi, più strumenti si avranno a disposizione, più sarà perfezionabile il Progetto e ravvisabile il suo inveramento. 

L’Utopia non sarà, comunque, la fotocopia su scala allargata delle preliminari sperimentazioni né la pura e semplice applicazione dei testi che andranno a riempire la Biblioteca. Anche il rapporto teoria-prassi deve essere infatti reinventato, in quanto non esiste nulla a cui rapportare la storia della nuova Società. Questo limite è, però, anche un grande vantaggio, poiché libera i pionieri della Nuova Era dal peso soffocante del sapere tradizionale.




      § XX.   Sul metodo della ricerca

I
l metodo di ricerca per l’invenzione ragionata della Società dell’Utopia si articola essenzialmente in due punti. Il primo consiste nell’opzione politica di realizzare «il massimo della ricchezza materiale e spirituale possibile per tutti e per ognuno». Il secondo s’impernia sulla elaborazione di progetti particolareggiati che diano corpo e colori al grande affresco.
Tali progetti ovviamente non solo non dovranno contenere contraddizioni interne, ma dovranno essere anche perfettamente compatibili con il modello complessivo. Ogni questione, inoltre, per quanto debba sempre combinarsi con la totalità dell’Utopia, deve essere affrontata in maniera specifica, disaggregando ciò che finora la tradizione ha tenuto legato.
È il caso, volendo esemplificare, della triade amore-matrimonio-sesso, la cui interdipendenza concettuale è solo una delle tante verità indimostrate che imbrigliano la nostra civiltà. In realtà, quello che si vuole costruire è una profezia rovesciata, che parta dal futuro per annunciare la realizzazione, quanto prima possibile, di una storia a sua immagine e somiglianza.
È tuttavia evidente che tale approccio deduttivo comporta che ogni astrazione vada verificata, che di ogni cosa si indichi il funzionamento, che ogni parto della mente sia rapportato alla sua concreta fattibilità.




      § XXI.   L’utopia S.p.A.

E
bbene sì, la ricerca sull’Utopia partirà proprio dalla costituzione di una ‘Utopia S.p.A.’, cioè di una società di capitali che ne finanzierà i progetti.
Per creare le idee, non bastano infatti la passione e l’intelligenza. C’è bisogno anche di finanziarle e di dar vita a un’organizzazione che operi secondo un criterio ‘aziendale’ di massima efficienza, come avviene per l’industria della ricerca. Giacché il Progetto si fonda proprio sulla ricerca. È anzi la più importante delle ricerche. Meglio sarebbe se la sede legale dell’Utopia S.p.A. venisse costituita in qualche paradiso fiscale, meglio se la maggioranza delle sue quote fosse formata da un pacchetto politico, meglio se in questa società di capitali si riversasse anche il patrimonio finanziario e immobiliare di chi intende conferire, in conto collettivo, la personale ‘accumulazione’ realizzata nel capitalismo.
L’Utopia S.p.A. è concepita, in ogni caso, come una società di ricerca a tempo determinato. Nel senso che l’anno in cui sarà fondato il Partito Rivoluzionario dell’Utopia sarà anche l’anno del suo scioglimento.




      § XXII.   L’anno che verrà

L’
anno che verrà è per un autore il secondo tempo del suo romanzo, delle sue poesie, del suo saggio. Un secondo tempo che corrisponde, in genere, allo scenario della vendita e della critica, per non parlare degli ambiti premi letterari. Io non sono né romanziere, né poeta. Tantomeno saggista.
La forza e la debolezza di questo testo sono frutto solo della tensione morale che è presente in me, della passione mentale che mi stimola a trovare risposta a quelle domande politiche che ogni giorno mi pongo e che per me rappresentano la nuova frontiera ideale dell’umanità. All’inizio, anni fa, quando decisi di riflettere sull’Utopia, non sapevo quale direzione darmi. Tutto era solo magma. E nulla è uscito di getto.
Ma è stato importante travasare quel magma nella scrittura, che ha dato poi corpo e vita a questo libro, tante volte riletto, ripensato e riscritto. Una volta decisa la pubblicazione, ero consapevole che non si sarebbe trattato di esibirmi a teatro. Lì tutti applaudono, specie quando si rappresenta la satira contro il potere. Qui invece gli applausi non sono di scena. So bene, anzi, che molti tenteranno di estrapolare da questo scritto delle singole frasi per capovolgere il senso delle mie intenzioni. I depressi, in particolare, cercheranno di rimuoverne il contenuto con la frase più comune e convenzionale: "... tanto, è un’utopia". E tra i depressi non mi desterebbe meraviglia incrociare alcuni ‘ortodossi’ dell’ideologia comunista. Costoro, mentre inveiscono contro le "contraddizioni strutturali del capitalismo", ritengono comunque irrealizzabile una società priva di contraddizioni fisiologiche. Arrivando persino a pensare che la vita, senza le contraddizioni, diverrebbe monotona.

Ma, allora, che rivoluzione sognano?
E perché sognano la rivoluzione?
So anche bene, tra l’altro, che le cose qui scritte non rappresentano i punti cardinali dell’Utopia. Sono anzi consapevole di non essere riuscito quasi mai a decollare nella forma compiuta dell’immaginario utopico, perché troppo piombo c’è ancora sulle ali delle mie idee: troppo anticapitalismo e poca Utopia, troppa contrapposizione e poca propositività.
In tal senso questo mio lavoro non è che un’istigazione a pensare. L’anno della pubblicazione rappresenterà, perciò, l’anno dell’ascolto. Uscito dalla clandestinità del pensiero solitario, vorrò udire se c’è la disponibilità a riaprire il dibattito sull’Utopia. Io, nonostante l’attuale scenario politico si presenti come una nauseante massa gelatinosa, avverto che sotterraneamente nuove idee si stanno muovendo.
In ogni caso, senza un progetto esecutivo, dalle ceneri del capitalismo non sorgerà che un’altra forma di società di classe e nuovi padroni prenderanno lo scettro del comando. Ecco perché la nuova razza è chiamata a un appuntamento epocale: attizzare la fiaccola dell’Utopia affinché la sacra ebbrezza sia trasmessa alle generazioni future. Ora che la logica del positivo ha ‘mostrato’ l’esistenza di una chiave universale con cui spalancare le porte di una nuova storia, ora che sono disponibili gli elementi di questo nuovo propellente, ora ha senso più di prima desiderare l’Utopia.
Lungi da me presumere che il prossimo giubileo della chiesa cattolica possa costituire l’ultimo anniversario dell’ideologia cristiana.
Non ritengo, tuttavia, del tutto occasionale la coincidenza tra la data di nascita della nuova logica e l’avvento dell’anno duemila.
Per i vecchi credenti sarà forse un segno del diavolo, per i nuovi potrà essere finanche il segno del manifestarsi di Dio. Per me è solo il raggrumarsi di un flusso collettivo, che si fa strumento della libera e ragionata evoluzione delle donne e degli uomini su questo pianeta. L’unico tempo a cui dobbiamo rapportarci è, comunque, quello dell’universo, poiché solo gli eventi cosmici (a parte sciagure belliche o ecologiche) possono modificare radicalmente le condizioni che permettono la vita. E nella scala dei tempi cosmici, lo stesso sistema solare non è più un vincolo per la specie umana. Prima che il Sole si sarà ridotto a un freddo corpo celeste, sarà certamente possibile migrare su un’altra Terra, come fu possibile all’Arca di Noè trasmigrando altrove per sottrarsi al diluvio.
Intanto possiamo anche dirci "ci vediamo nell’Utopia", un po’ come è successo agli Ebrei, che per migliaia di anni hanno pensato alla Terra Promessa. Ma se l’Utopia è stata pensata, vuol anche dire che il fuoco contagioso di quel pensiero potrà farla divenire Storia.


 


      § XXIII.   Epilogo

È 
stato anche il vivere in una città totale come Napoli che ha aiutato l’autore a redigere questo testo. Poiché in questa parte della Terra sono presenti, come in una vetrina delle iperboli, le contraddizioni forti e quelle deboli, le passate e le attuali, l’evoluzione tecnologica e il primitivo. È questa poi una città dove ogni dimensione si esprime con meno veli, per cui tutti i tipi di fenomeni (materiali e spirituali) sono più facilmente leggibili nella loro severa nudità.



@ lfa
   Alfredo Alì
 

 

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Estratto dal libro Preludio alla Società dell’Utopia
Autore Alfredo Alì
Pubblicato dalla Casa Editrice
 Sito editoriale  no-profit
ISBN 88-900133-0-3 
Printed in Italy
Prima edizione gennaio 1997 - Edizione Internet  Settembre 2005
Su Internet
  www.utopia.it
 ISBN 88-900133-0-3

 

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